Cap. 16 – La polifarmacoterapia nelle persone anziane: principi di appropriatezza e riconciliazione terapeutica

Capitolo del Manuale per operatori “educare alla Salute e all’Assistenza”

Autori: Pietro Delgiudice, Luca Arnoldo, Pierfrancesco Tricarico, Giovanni Cattani, Silvio Brusaferro

Indice

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DESCRIZIONE E DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI POLIFARMACOTERAPIA

Il termine “polifarmacoterapia” deriva dal greco “poly”, che significa “più di uno” e “farmacoterapia”, che si riferisce al termine greco “pharmakon”. Questa parola unisce in sé la definizione di “politerapia”, che si riferisce all’utilizzo contemporaneo di più farmaci prescritti dal medico e “polifarmacia”, con cui si intende l’impiego di più farmaci anche non prescritti, non tutti indispensabili per una cura appropriata (Duerden, 2014).

Ad oggi, non vi è accordo sulla definizione di polifarmacoterapia, per cui esistono due maggiori scuole di pensiero. In una prima definizione, più operativa (prevalentemente in uso nel contesto Europeo), la polifarmacoterapia viene definita in base ad una soglia arbitraria di farmaci prescritti (Tjia, 2013). La soglia più spesso utilizzata è di almeno 5 principi attivi assunti cronicamente mentre l’assunzione concomitante, su base regolare o al bisogno, di 9-10 o più farmaci è stata definita polifarmacoterapia eccessiva o iperpolifarmacoterapia (excessive polypharmacy o hyperpolypharmacy). Una definizione alternativa di polifarmacoterapia (prevalentemente in uso nel contesto Statunitense) è l’uso di più farmaci rispetto a quanti sono necessari dal punto di vista medico. Secondo questo enunciato, i farmaci non indicati, non efficaci o che costituiscono una duplicazione terapeutica verrebbero considerati come polifarmacoterapia (Maher, 2013). Ai fini del presente articolo e relativamente al contesto italiano la definizione di polifarmacoterapia è quella che prevede un utilizzo di 5 o più farmaci con particolare attenzione al concetto di iperpolifarmacoterapia (10 o più farmaci).

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EPIDEMIOLOGIA E STATO DELL’ARTE

Invecchiamento della popolazione

La polifarmacoterapia è una problematica comune nella popolazione anziana spesso polipatologica e la sua frequenza è prevista in aumento come conseguenza dell’invecchiamento della popolazione. Tale fattore risulta essere la diretta conseguenza da un lato dell’aumento dell’aspettativa di vita e dall’altro della riduzione del numero medio di figli per donna. Ciò ha portato a una vera e propria demographic transition, ovvero un grande spostamento in avanti dell’età media delle popolazioni. I dati raccolti dalla World Health Organization (WHO) affermano che la quota di persone con più di 60 anni sta crescendo più velocemente rispetto alle altre fasce di età. Le stime prevedono che nel 2050 le persone con 60 o più anni raggiungeranno quasi i 2 miliardi (corrispondente a più del triplo rispetto al 2005) e costituiranno circa un quarto della popolazione mondiale, con tassi di crescita molto variabili a seconda della regione considerata.

In Italia le persone con almeno 65 anni (definiti come “anziani”), che rappresentavano appena l’1% della popolazione nel 1861, anno di nascita dello Stato italiano, costituiscono attualmente circa il 20% e si prevede che raggiungeranno nel 2051 la quota di un terzo del totale. L’invecchiamento della popolazione porterà anche a un aumento dei grandi anziani, definiti come i soggetti con almeno 85 anni, che passeranno dall’attuale 2,3% della popolazione al 7,8% (Tragni, 2014).

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La multimorbilità e il consumo di farmaci nell’anziano

La diffusione della polifarmacoterapia negli anziani è stata attribuita a diversi fattori, tra cui l’aumento della prevalenza della polipatologia e il grande numero di linee guida evidence-based che raccomandano l’uso di più di un farmaco per il trattamento di malattie croniche. Il regime polifarmacologico può però diventare di difficile gestione, soprattutto quando i farmaci sono prescritti da più specialisti che operano in modo indipendente l’uno dall’altro. Una revisione sistematica della letteratura riporta che gli anziani assumono in media da 2 a 5 farmaci quotidianamente e che la polifarmacoterapia è un fenomeno che riguarda il 20-40% della popolazione anziana (Iyer, 2008).

In Italia la multimorbilità interessa un terzo della popolazione adulta, per raggiungere una prevalenza del 60% tra i soggetti di età compresa tra i 55 e i 74 anni. Una revisione sistematica della letteratura in cui sono stati presi in considerazione gli studi scientifici condotti dal 1990 al 2010 riguardo la frequenza, le cause e le conseguenze della multimorbilità nelle persone anziane ha rilevato che a livello mondiale la sua prevalenza, definita come la concomitante presenza di almeno 2 patologie (di cui almeno una cronica), varia ampiamente a seconda della casistica considerata, andando dal 20-30% negli studi sull’intera popolazione al 55-98% della fascia maggiore di 65 anni (Marengoni, 2011). Con l’età, infatti, cresce la probabilità che si verifichi la coesistenza di più patologie, spesso senza la possibilità di individuare quella più rilevante dal punto di vista prognostico e terapeutico. L’aumentare della prevalenza di multimorbilità ha portato a nuovi bisogni di salute, con la definizione del cosiddetto “paziente complesso”. La definizione di “complesso” non si limita alla semplice sommatoria delle patologie che lo caratterizzano, ma ne considera l’interazione multidimensionale, generando un’entità con caratteristiche peculiari dal punto di vista di eziopatogenesi, necessità terapeutiche e prognosi. Per definizione, gli anziani con multimorbilità rappresentano una categoria eterogenea per gravità delle patologie, stato funzionale, prognosi e rischio di reazioni avverse, anche laddove venga diagnosticato lo stesso insieme di condizioni patologiche. Di conseguenza, variano anche le priorità per le cure sanitarie.

I soggetti con multimorbilità hanno una ridotta qualità della vita e outcome di salute peggiori rispetto a quelli con una sola malattia e sono anche i principali utilizzatori di assistenza sanitaria. I dati italiani raccolti dal rapporto OsMed 2015 dell’AIFA mostrano che, in generale, l’andamento dei consumi medi e della spesa per i farmaci è fortemente dipendente dalla fascia di età: gli anziani, a causa delle concomitanti patologie spesso croniche, si sono dimostrati i maggiori consumatori di farmaci. La spesa pro-capite per i medicinali a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) per i soggetti anziani è risultata 3 volte superiore al livello medio nazionale e più di 6 volte superiore rispetto alla spesa media sostenuta per un soggetto appartenente alle fasce d’età inferiori. Tali cifre sono dovute alla differente prevalenza d’uso dei farmaci, che passa da circa il 50% nei soggetti di età inferiore ai 55 anni a quasi il 90% nella popolazione con più di 74 anni di età (AIFA, 2016).

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Polifarmacoterapia e problematiche relative ai soggetti anziani

I potenziali benefici derivanti dai farmaci prescritti e monitorati in modo adeguato negli anziani sono intuitivi e ben noti, così come i rischi associati a tali trattamenti. È stato dimostrato ad esempio che l’incidenza delle reazioni avverse ai farmaci (ADR) si correla con l’età e che molti ricoveri ospedalieri e decessi nella popolazione anziana sono legati ai farmaci assunti (Hilmer, 2007). La polifarmacoterapia può rappresentare una criticità principalmente per due motivi. In primo luogo, più è alto il numero di farmaci assunti, maggiore è il rischio di reazioni avverse e di interazioni farmacologiche; in secondo luogo, poiché i farmaci sono spesso prescritti da più professionisti, che lavorano in modo indipendente l’uno dall’altro, vi è un costante rischio di generare discontinuità nel percorso assistenziale del paziente con patologie croniche, il cui regime terapeutico subisce spesso plurime modifiche, con insorgenza di discrepanze e potenziali errori.

Inoltre, la polifarmacoterapia sarebbe associata a:

  • declino funzionale negli anziani, inteso come una riduzione delle capacità di portare a termine le normali attività della vita quotidiana (Magaziner, 1989);
  • degenerazione cognitiva, intesa sia come comparsa di delirium e/o demenza, è stata associata alla polifarmacoterapia (Maher, 2013);
  • aumento di rischio di cadute, con conseguente incremento di morbilità e mortalità nell’anziano, in particolar modo per alcune specifiche classi di farmaci (Maher, 2013);
  • effetti sullo stato nutrizionale con aumentato rischio di malnutrizione (Jyrkkä, 2011).

Negli anziani, perciò, popolazione ad alto consumo di preparati farmaceutici, è indispensabile soppesare sempre i benefici e i rischi derivanti dal loro utilizzo. La stessa etimologia della parola farmaco, dal greco pharmakon, che significa “veleno”, evidenzia in modo immediato l’accostamento delle proprietà terapeutiche e di quelle tossiche di queste sostanze.

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Aderenza terapeutica

Come precedentemente discusso, una delle conseguenze della polifarmacoterapia è la non-aderenza al trattamento. È stato infatti calcolato che la non-aderenza alla corretta terapia tra gli anziani residenti in comunità varia dal 43% al 100% (Hughes, 2004). Questo fattore porta con sé il rischio di fallimento terapeutico e quindi potenziale progressione della malattia, rischio di ospedalizzazione e di eventi avversi ai farmaci (Maher, 2013). Pertanto, risulta fondamentale individuare i fattori che fungono da barriera nei confronti dell’aderenza terapeutica; è possibile identificare tre categorie di fattori (Gellad, 2011). La prima riguarda gli aspetti correlati al paziente: fattori socio-demografici, psico-sociali, comorbilità, capacità cognitiva e credenze sulla salute. Nonostante la maggior parte delle caratteristiche socio-demografiche (come età, sesso, etnia) non siano modificabili, altri fattori lo sono, dunque, educare il paziente in modo che comprenda pienamente i rischi del suo stato patologico può aiutare a minimizzare gli effetti delle conoscenze scorrette sulla salute e quindi promuovere l’aderenza al trattamento. La seconda categoria riguarda i fattori legati al farmaco, che comprendono invece il numero di medicinali assunti, la modalità di somministrazione e gli effetti avversi ad essi correlati. Nello specifico, si evidenzia un’associazione negativa tra l’assunzione di più farmaci e la non-aderenza (più alto il numero di farmaci presenti in terapia, minore l’aderenza). La terza categoria di fattori che sembrerebbe aumentare il rischio di una ridotta aderenza al trattamento comprende l’accesso ai farmaci (costo dei farmaci, trasporto alla farmacia, dover passare a un farmaco generico) e la relazione medico-paziente. Il miglioramento di questi elementi rappresenta un obiettivo importante per la ricerca futura, al fine di motivare il paziente a una maggiore compliance.

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Reazioni avverse

La definizione di ADR introdotta a livello della Comunità Europea nel 2010 con la Direttiva Europea 2010/84/EU e con il Regolamento UE 1235/2010 afferma che, affermando che per ADR si intende qualsiasi “effetto nocivo e non voluto conseguente all’uso di un medicinale”. Tale definizione è indipendente dal tipo di uso che viene fatto del farmaco, comprendendo anche le reazioni avverse derivanti da abuso, utilizzo off-label, sovradosaggio (accidentale o a scopo autolesivo) ed esposizione professionale. Tali eventi sono inoltre soggetti a segnalazione alle competenti autorità regolatorie, quali l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e l’Agenzia Europea per i Medicinali (European Medicines Agency, EMA).

Molte evidenze mostrano chiaramente una correlazione tra ADR ed età (Routledge, 2003). Siccome gli anziani ricevono mediamente più farmaci delle altre fasce di età, talvolta in modo inappropriato, è verosimile che l’aumentato rischio di sviluppare una ADR in questa categoria di persone sia legato non solo ai cambiamenti fisiologici caratteristici di questo gruppo di età, ma anche al numero di principi attivi assunti.

L’importanza di rivolgere gli sforzi alla prevenzione delle ADR nella popolazione anziana è evidenziata da uno studio statunitense che ha rilevato che i soggetti con più di 65 anni, circa il 12% dell’intera popolazione, erano le vittime di più di un quarto di tutte le ADR, metà delle quali avevano richiesto l’ospedalizzazione. La probabilità di sviluppare una ADR in questa fascia d’età, rispetto alla popolazione più giovane, era più che doppia, e la necessità di ospedalizzare il paziente si manifestava con una frequenza quasi 7 volte maggiore rispetto al resto della popolazione (Budnitz, 2006).

Uno studio italiano multicentrico condotto su una popolazione di pazienti anziani ospedalizzati ha rilevato che, per ogni ADR insorta durante la degenza, il ricovero veniva prolungato in media di 3,6 giorni e che una sola ADR è sufficiente per accrescere di 7 volte la mortalità durante il periodo di ospedalizzazione, indipendentemente da età, sesso, tipo di terapia e patologie concomitanti (Nobili, 2011).

La suscettibilità alle ADR dipende da numerose variabili, alcune delle quali legate alle caratteristiche del farmaco e altre legate alle caratteristiche del paziente stesso. Quest’ultimo elemento dipende infatti, da fattori genetici, tipo di dieta, uso di sostanze voluttuarie come il fumo di sigaretta, stati patologici associati e, infine, dall’età. Nonostante resti ancora da definire del tutto in che modo il normale invecchiamento, le comorborsità e la polifarmacoterapia si intreccino nel determinare gli eventi avversi a un farmaco, è chiaramente dimostrato che la popolazione anziana ha un rischio aumentato di sviluppare ADR. Con l’età anche le riserve funzionali vanno incontro a un declino, dando ripercussioni a livello cardiovascolare, muscolo-scheletrico e nervoso; ciò potrebbe dare un contributo alla predisposizione dell’anziano a sviluppare reazioni esagerate ai farmaci; lo squilibrio dei meccanismi omeostatici può esitare in effetti collaterali più pronunciati (ad esempio ipotensione ortostatica da antipertensivi) o in una carenza di risposte compensatorie (come ridotta tachicardia riflessa, alterata regolazione di temperatura e concentrazione elettrolitica).

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Come valutare l’appropriatezza delle prescrizioni farmacologiche

Potentially inappropriate medication (PIM), cioè prescrizione potenzialmente inappropriata è il termine utilizzato ogniqualvolta viene prescritto un farmaco i cui rischi potenziali superano i benefici, in particolare quando esistono delle alternative più sicure e/o efficaci per il trattamento della stessa condizione clinica. L’inappropriatezza prescrittiva comprende l’uso di un farmaco non adeguato, ma anche il suo utilizzo ad un dosaggio, durata o frequenza delle somministrazioni non corrette (Pasina, 2016).

Secondo quanto riportato in letteratura, le PIM nelle persone anziane possono essere suddivise in tre principali categorie: farmaci da evitare sempre (farmaci inefficaci o che espongono i soggetti anziani a rischi non necessari, in particolare quando esistono alternative farmacologiche di pari efficacia ma più sicuri), farmaci da evitare in specifiche circostanze (farmaci di documentata efficacia, ma che non dovrebbero essere usati come trattamento di prima scelta per il loro rapporto rischio/beneficio sfavorevole) e farmaci da utilizzare solo sotto stretto monitoraggio del paziente (pur avendo indicazione nel paziente anziano, devono essere utilizzati sotto uno stretto monitoraggio da parte del medico, in quanto c’è la possibilità che vengano utilizzati in modo inappropriato o a un dosaggio eccessivo) (Maio, 2010).

La prescrizione inappropriata può assumere varie forme, essa può configurarsi come sotto o sovra- prescrizione, due fenomeni che si riferiscono a un inadeguato uso del farmaco sia in termini di durata che di dosaggio. In secondo luogo, la prescrizione inappropriata di farmaci può dare origine a prescrizioni duplicate, ovvero alla prescrizione contemporanea di due principi attivi della stessa classe terapeutica per trattare una determinata patologia o diverse patologie, determinando un ingiustificato aumento del rischio di danno iatrogeno. In terzo luogo, l’inappropriatezza farmacologica può manifestarsi come interazione farmacologica, quel fenomeno che si verifica quando un farmaco (interazione farmaco-farmaco), un alimento (interazione farmaco-cibo) o una condizione patologica (interazione farmaco-patologia) interagisce con un medicinale assunto dal paziente, che ne provoca un’alterazione del profilo beneficio/rischio.

Un’altra possibile manifestazione di inappropriatezza prescrittiva è la cosiddetta cascata prescrittiva. Questo termine, introdotto per la prima volta nel 1997, si riferisce al fenomeno per cui una reazione avversa a un farmaco non viene riconosciuta come tale, bensì viene interpretata come la manifestazione di una nuova patologia. Pertanto, al fine di trattare questa presunta nuova manifestazione clinica, vengono prescritte nuove terapie non necessarie, che espongono il paziente al rischio di sviluppare ulteriori eventi avversi (Rochon, 2017).

Negli ultimi vent’anni numerosi studi hanno dimostrato l’aumento della prescrizione di farmaci considerati potenzialmente inappropriati nella popolazione anziana, che nel nostro Paese varia dal 2,2% al 35,6% a seconda della sottopopolazione considerata (Pasina, 2016). Uno studio Europeo del 2005 ha riportato che, tra gli 11 Paesi partecipanti, l’Italia era seconda (26,5%) solo alla Repubblica Ceca (41,1%) per prevalenza di PIM (Fialová, 2005). Nello stesso anno, uno studio del gruppo GIFA (Gruppo Italiano di Farmacovigilanza nell’Anziano) condotto su una coorte di oltre 5000 pazienti, con in media 79 anni di età, ricoverati in 81 ospedali italiani, ha documentato che il 29% di tali pazienti riceveva almeno un farmaco inappropriato (Onder, 2005).

Esistono varie tipologie di criteri prescrittivi che possono essere utilizzati come strumenti per la verifica della prescrizione medica nell’anziano. In questo capitolo tratteremo i criteri più utilizzati in letteratura: i criteri di Beers e i criteri STOPP (Screening Tool of Older Persons’ Prescriptions) e START (Screening Tool to Alert to Right Treatment).

Nel 1991 negli Stati Uniti, un gruppo di 13 specialisti in vari settori, attraverso l’uso del metodo Delphi, ha elaborato il primo set di criteri di Beers. Sono nati così i primi criteri di appropriatezza prescrittiva negli anziani, che hanno preso il nome del loro ideatore principale “The Beers Criteria for Potentially Inappropriate Medication Use in Older Adults”, comunemente chiamati “criteri di Beers”. Essi comprendono due liste di farmaci che dovrebbero essere evitati negli anziani; la prima lista contiene farmaci inadeguati indipendentemente dalla condizione clinica del soggetto, mentre la seconda contiene farmaci considerati inappropriati solo negli anziani affetti da determinate condizioni cliniche (Beers, 1991).

La Società Americana di Geriatria (American Geriatric Society, AGS) ha adottato questi criteri e li ha modificati in riferimento all’elenco di farmaci disponibili negli Stati Uniti, allo scopo di migliorare la prescrizione farmacologica negli anziani, ridurre l’incidenza di effetti collaterali e i costi non necessari (Vrdoljak, 2015). Il primo set di criteri è stato finora aggiornato quattro volte: nel 1997, nel 2003, nel 2012 e infine nel 2015 (AGS, 2015).

Il metodo STOPP and START è stato elaborato per la prima volta nel 2008 da un team di 18 esperti, che ha proposto due tipologie di criteri: i medicinali da non prescrivere nel paziente anziano (criteri STOPP), e i medicinali che dovrebbero essere invece prescritti nel paziente anziano in determinate condizioni cliniche (criteri START) (Gallagher, 2008). La versione più recente è formata da una lista di criteri STOPP comprendente 80 indicatori di farmaci potenzialmente inappropriati, e una di criteri START con 34 indicatori che consentono di identificare le sottoprescrizioni e le omissioni di farmaci potenzialmente benefici nei pazienti anziani (O’Mahony, 2014).

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RICONCILIAZIONE TERAPEUTICA E DEPRESCRIBING

La riconciliazione terapeutica

La conoscenza precisa della terapia farmacologica di un paziente è una premessa fondamentale per una prescrizione medica sicura. Tuttavia, questa conoscenza è resa difficile sia dal coinvolgimento di diversi operatori sanitari nei percorsi diagnostico-terapeutici sia dall’invecchiamento della popolazione, che si associa all’aumento di patologie croniche, all’aumento del consumo di farmaci e all’elevata prevalenza di politerapie seguite per lunghi periodi di tempo. A ciò va aggiunto che le linee guida per una singola patologia sono spesso inadeguate per la gestione dell’anziano con pluripatologia; ognuna di esse raccomanda, infatti, trattamenti per ridurre i sintomi e la progressione di una singola specifica patologia, spesso sulla base di dati non relativi alla popolazione anziana. Questa complessità porta con sé un alto rischio di errori di prescrizione farmacologica, soprattutto nei momenti di passaggio della presa in carico del paziente, come l’ammissione e la dimissione da un reparto ospedaliero per acuti, i trasferimenti di setting all’interno della stessa azienda sanitaria o tra strutture diverse.

Più in generale, nel processo di cura del paziente vi è il rischio che si presentino modifiche involontarie nella terapia farmacologica assunta dal paziente stesso; tali differenze sono dette anche variazioni non intenzionali, in quanto sono dovute alla mancanza di comunicazione o ad una comunicazione non efficace con perdita non intenzionale di informazioni, e possono dare luogo a sovrapposizioni, omissioni, controindicazioni prescrittive, interazioni farmacologiche e confondimento dovuto a farmaci con nome o aspetto simile, cosidetti Look-Alike/Sound-Alike (LASA) (Ministero della salute, 2010) e la triturazione di farmaci ai fini di favorirne l’assunzione ma con la conseguente alterazione dell’efficacia terapeuticaiturazione di farmaci ai fini di favorirne l’assunzione ma con la conseguente alterazione dell’efficacia terapeutica. Una revisione della letteratura che ha incluso 22 studi ha rilevato che le variazioni farmacologiche non intenzionali al momento del ricovero ospedaliero sono comuni, arrivando fino al 67% dei casi in ospedale e che, spesso, queste rimangono non corrette (Ministero della Salute, 2015). Tassi di modifiche non intenzionali del trattamento farmacologico leggermente più elevati (62%) possono verificarsi durante i trasferimenti interni agli ospedali (ad esempio, dal reparto di terapia intensiva ai reparti di degenza) (Lee, 2010); almeno il 40% dei pazienti sarebbe vittima, inoltre, di tale fenomeno al momento della dimissione (Wong, 2008). La tipologia di variazione terapeutica più comune è l’omissione (farmaci necessari che non vengono iniziati o proseguiti) e all’incirca la metà di questi errori non vengono rilevati prima dell’insorgenza di conseguenze sul paziente (Santell, 2006).

L’ente americano Institute for Safe Medication Practices ha stimato che il 50% degli errori medici e il 20% degli eventi avversi ai farmaci, specialmente nelle persone over-65, potrebbero essere evitati grazie a un’adeguata riconciliazione terapeutica, che aiuterebbe a migliorare la sicurezza del paziente (ISMP, 2012).

La riconciliazione terapeutica è un processo standardizzato che consiste nel confronto sistematico tra la terapia farmacologica seguita dal paziente fino al momento attuale e la terapia prevista per la sua nuova condizione clinica, per analizzare e risolvere qualsiasi scostamento osservato, documentando e riportando eventuali modifiche. Questo processo andrebbe svolto ad ogni transizione nel percorso di cura e ha l’obiettivo di ridurre gli errori medici (Joint Commission, 2006). La procedura può essere schematizzata e divisa in tre diverse fasi (Porcelli, 2010):

  1. creazione di una lista completa e accurata dei medicinali assunti dal paziente al momento;
  2. confronto tra la terapia seguita dal paziente e quella che si vuole impostare;
  3. comunicazione al paziente della nuova terapia.

La prima fase, detta ricognizione, consiste in un’anamnesi farmacologica dettagliata, la cui fonte privilegiata è il paziente o il caregiver, che porta allo sviluppo di un elenco comprendente tutti i principi farmacologici prescritti e da banco, insieme a supplementi dietetici, sostanze omeopatiche ed erboristiche; per ciascuna di queste voci vanno indagate con precisione dose, frequenza e modalità di assunzione. Già durante questa fase il medico può notare farmaci che necessitino di un aggiustamento o controindicazioni rispetto a un farmaco che aveva intenzione di introdurre.

Il passaggio successivo consiste nella riconciliazione, che si effettua verificando che nella terapia in corso non siano presenti sovrapposizioni, omissioni, interazioni, controindicazioni o confondimenti dovuti alla possibile presenza di farmaci LASA e valutando le nuove disposizioni, come prescrizioni ex novo o modifiche della terapia in atto.

L’ultima fase è quella della comunicazione che è un fattore fondamentale per la sicurezza e la qualità delle cure; è doveroso, infatti, nonché necessario, informare il paziente (o in alternativa i familiari o altri caregiver) delle modifiche apportate al trattamento terapeutico, fornendone la motivazione e assicurandosi dell’effettiva comprensione della terapia impostata.

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Il deprescribing

Per deprescribing si intende il processo di sospensione o diminuzione di un farmaco inappropriato, da parte di un professionista sanitario, con l’obiettivo di minimizzare i rischi e migliorare i risultati clinici (Scott, 2015). Questa definizione precisa che il processo deve essere supervisionato da un professionista sanitario per distinguerlo dalla non-aderenza terapeutica. Si sottolinea anche che il deprescribing viene applicato specificatamente per migliorare i risultati clinici e non consiste nel negare trattamenti efficaci, inoltre è uno strumento efficace per ridurre l’uso inappropriato dei farmaci e non a caso recentemente è stata prodotta una crescente quantità di dati riguardo all’efficacia del deprescribing nella popolazione anziana (Garfinkel, 2015).

Complessivamente, i dati a disposizione (Reeve, 2014) suggeriscono che il deprescribing produce più benefici che rischi, e che può quindi essere effettuato in sicurezza. È però importante considerare che i benefici riportati negli studi si riferiscono a specifiche categorie farmacologiche e che nei diversi sottogruppi della popolazione di riferimento il deprescribing potrebbe manifestare effetti differenti. Questi ultimi potrebbero essere minimizzati con un’adeguata pianificazione, ad esempio prevedendo una fase iniziale di diminuzione graduale della dose, e con un monitoraggio dopo l’interruzione, eventualmente reintroducendo il farmaco se la condizione patologica dovesse ripresentarsi.

È stato dimostrato come il deprescribing sia un intervento favorevolmente accettato dalla popolazione anziana. In uno studio Australiano oltre il 90% di anziani in diversi setting di cura affermava di voler interrompere uno dei farmaci assunti se ritenuto possibile dal proprio medico (Qi, 2015).

Tuttavia sono presenti alcune importanti barriere rispetto all’accettazione della sospensione di un farmaco, tra cui il timore delle conseguenze e il disaccordo sul fatto che il farmaco dovrebbe essere interrotto (Reeve, 2013). L’approccio centrato sul paziente (patient-centred care) ha dimostrato di migliorare la soddisfazione, l’aderenza, la qualità della vita e la condizione clinica globale del paziente. Considerando anche che il paziente è un insostituibile fonte di informazioni, non solo per l’anamnesi patologica e farmacologica, ma anche per stabilire gli obiettivi terapeutici, il deprescribing dovrebbe coinvolgere il paziente a tutto tondo. Il modello di cure centrato sul paziente prevede la presa delle decisioni in modo condiviso, la visione del paziente a 360° e la promozione di una relazione medico-paziente positiva.

In generale, quella del trattamento farmacologico della popolazione anziana con polipatologia, è una sfida che coinvolge l’intero servizio sanitario e richiede l’acquisizione di conoscenze e la sperimentazione di modello tarati specificamente sulla realtà epidemiologica emergente. Il primo e più importante passo però è quello di riconoscere il problema e la sua complessità: a partire da questa consapevolezza si tratta di adottare a tutti i livelli e da parte di tutti gli attori (policy makers, agenzie nazionali, professionisti come MMG, specialisti, farmacisti, infermieri e altri e i cittadini) un atteggiamento prudente nell’uso dei farmaci a partire dalle evidenze disponibili ma anche andando a sperimentare e condividere conoscenze ed esperienze che ci consentano di mettere a punto risposte sicure, appropriate e sostenibili per queste tipologie di pazienti.

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Glossario
  • ADR: Adverse Drug Reactionm
  • AGS: Società Americana di Geriatria
  • LASA: Look-Alike/Sound Alike
  • PIM: Potentially Inappropriate Medication
  • SSN: Servizio Sanitario Nazionale
  • START: Screening Tool to Alet to Right Treatment
  • STOPP: Screening Tool of Older Person’s Prescription
  • UE: Unione Europea

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Bibliografia

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