Cap. 3 – La comunicazione come strumento di lavoro nelle relazioni di aiuto e nei contesti di cura

Capitolo del Manuale per operatori “Educare alla Salute e all’Assistenza”
Autrice: Silvia Ciaccio
Indice del capitolo

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IL COLLOQUIO E LA COMUNICAZIONE

Colloquio e comunicazione, due termini di uso comune che siamo avvezzi a sentire ed utilizzare giornalmente con semplicità ma che in realtà racchiudono significati articolati e molteplici, non così facili da definire.

Colloquio e comunicazione non sono innanzitutto sinonimi. Il colloquio è infatti solo uno tra i diversi e possibili tipi di comunicazione. La comunicazione avviene ogni qualvolta, attraverso l’impiego di diversi canali (verbale, non verbale, visivo, uditivo, cinestesico), viene passata un’informazione.

È comunicazione il linguaggio dei segni, i segnali non verbali che più o meno consapevolmente inviamo, le scritte pubblicitarie e le insegne luminose che cercano di attrarre il più possibile la nostra attenzione.

Il colloquio è una particolare modalità di comunicare in cui è preponderante la parte verbale, accompagnata comunque da aspetti visivi, cinestesici ed affettivi.

Si può colloquiare giusto al solo fine di socializzare, ma anche per educare, convincere, persuadere.

Esistono poi modalità specifiche di condurre un colloquio in vista di raggiungere specifici e ben definiti obiettivi, che vanno dal raccogliere informazioni all’erogarle:

  • il colloquio anamnestico ha come finalità principale la raccolta di informazioni cliniche utili al sanitario per prendere decisioni
  • il colloquio educativo, al contrario, tende a fornire all’assistito informazioni utili per saper agire e prendere decisioni in maniera corretta e consapevole
  • il colloquio di selezione ha come finalità la raccolta di informazioni circa le abilità, competenze e caratteristiche personologiche dei candidati ad una data mansione, per individuare chi possa maggiormente essere idoneo a ricoprirla
  • il colloquio di sostegno psicologico serve a fornire all’assistito uno spazio neutro, di discussione e riflessione, dove poter portare pensieri, emozioni e vissuti, da lavorare alla luce di prospettive diverse da quella unica ed univoca del diretto interessato
  • il colloquio motivazionale è finalizzato a trovare ed alimentare le leve del cambiamento, per spronare e sostenere la persona lungo il percorso, non privo di ostacoli, che va dal pensiero appena abbozzato di voler cambiare, alla decisione di volerci provare, alla messa in atto e mantenimento della decisione presa.

Come si può ben vedere nel colloquio sono sempre implicati due aspetti, il dare ed il ricevere informazioni, ma la misura e l’importanza di questi cambia profondamente nei diversi tipo di colloquio, spostandosi maggiormente verso l’uno o l’altro polo.

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LA COMUNICAZIONE

Se è vero che non si può non comunicare perché ogni nostra parola o azione è uno stimolo che viene inviato ed interpretato dal modo esterno (Watzlawick, 1971), è anche vero che la consapevolezza di tale comunicazione non sempre è così chiara.

La comunicazione è un processo interattivo tra un emittente (colui che invia il messaggio) ed un ricevente, (colui che lo riceve) (figura 1). Tale processo non è lineare ma circolare, poiché sia emittente che ricevente danno ed al contempo ricevono informazioni: il messaggio viene inviato dall’emittente, è decodificato dal ricevente il quale dà una risposta di ritorno, che viene a sua volta ricevuta e decodificata da colui che è divenuto ora ricevente.

Il processo non è immune da intoppi a causa di diverse problematiche che possono intervenire ai vari livelli (emittente, ricevente, messaggio, codifica, decodifica). Può accadere così che la comunicazione non sia buona a causa di un messaggio non ben formulato nei contenuti o nella forma (problema legato all’emittente), ma anche che il problema riguardi la decodifica, ovvero che il ricevente storpi il messaggio ricevuto a causa di quelli che vengono definiti filtri della comunicazione (preconcetti, stereotipi, modelli e valori culturali, etc.). Un messaggio, per essere il più chiaro e meno equivocabile possibile, deve essere coerente a livello verbale, paraverbale e non verbale, ovvero deve esserci corrispondenza tra ciò che viene detto (parole, frasi), come viene detto (tono della voce, velocità dell’eloquio, pause, silenzi) e circostanze in cui viene detto (spazio interpersonale, postura, mimica facciale, gesti). Quando ciò non accade si ha l’immediata percezione che qualcosa non convinca e si rende necessario disambiguare il messaggio. Una funzione essenziale in tal senso è svolta dal non verbale, che dice a volte di più delle stesse parole: lo spazio interpersonale, il tono della voce, il contatto visivo e corporeo, la velocità dell’eloquio, le pause ed i silenzi, la postura ed i gesti, danno corpo alle parole dette, facilitano la comprensione del messaggio rendendolo credibile o meno. La mancanza di questo aspetto nella comunicazione scritta la rende più facilmente equivocabile; è per ovviare a questo problema che sono state create le emoticon.

Figura 1: La comunicazione è un processo interattivo

A differenza di quanto si potrebbe pensare, è stato provato che nella comunicazione vis-a-vis solo il 7% del significato del messaggio viene trasmesso attraverso le parole, ben il 38% viene comunicato tramite gli aspetti paraverbali (tono, volume della voce, velocità dell’eloquio) e addirittura il 55% attraverso la comunicazione non verbale (postura, gesti, espressioni facciali) (Mehrabian, 1981). Il non verbale insomma parla più delle parole, veicolando ciò che non può essere espresso a voce: emozioni, preoccupazioni, stati d’animo, aspetti che determinano il colore della comunicazione.

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IL COLLOQUIO TERAPEUTICO

In alcuni contesti tra cui quello della cura, la qualità della comunicazione determina la riuscita o meno degli obbiettivi che si vogliono raggiungere. La qualità della comunicazione con la persona assistita è il tramite della relazione terapeutica. Che si tratti di un colloquio a due o in gruppo, in generale, nelle relazioni di aiuto l’attitudine, la sensibilità e molti altri fattori legati agli interlocutori, possono generare malintesi. I colloqui tra operatori e pazienti non sono conversazioni qualunque poiché comportano un obiettivo, per cui il buon senso e la buona volontà si rivelano insufficienti a garantire una buona comunicazione, che necessita di abilità e competenze che vanno apprese in appositi percorsi formativi.

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GLI ATTEGGIAMENTI SPONTANEI, OVVERO LE TRAPPOLE DELLA COMUNICAZIONE

In psicologia sociale si chiama atteggiamento un modo di essere interiore che genera una certa predisposizione ad agire. Gli atteggiamenti sono acquisiti e non innati, si basano su un insieme di principi, convinzioni, sentimenti e motivazioni, che fungono da punti di riferimento per orientarsi ed agire nel mondo.

Secondo Porter (Porter, 1950) esistono sette categorie di atteggiamenti che rappresentano altrettanti modi differenti di rispondere ad una richiesta altrui. In generale, in situazioni di imbarazzo di fronte ad una situazione difficile o una scelta problematica, le persone tendono ad esibire i loro atteggiamenti spontanei, ovvero le reazioni immediate che vengono più facili, ma che non sempre facilitano la comprensione e la fiducia reciproca. Riportiamo, a titolo di esempio, alcune risposte che si possono dare nella seguente, non facile, situazione.

Nel corso di un colloquio con un’infermiera, una giovane assistita affetta da alcuni anni da diabete di tipo 1, dice: “Credo che il diabete non sia una malattia, bensì un handicap, ma mi rimane una domanda su cui i medici non hanno fatto chiarezza: la possibilità di avere dei figli. Hanno usato la parola ‘ereditaria’ e ciò mi ha messo paura. Quando si ha il diabete ci si domanda se si abbia il diritto di trasmetterlo ad altri”.

Questa non è di per sé una domanda, ma elicita il bisogno di dare risposta ad una situazione che si percepisce non chiusa ed irrisolta. È possibile rispondere in diversi modi a questa affermazione.

  • Risposta tipo “giudizio”: “Avrebbe dovuto chiedere subito dei chiarimenti invece di portarsi dietro questo dubbio e dire che i medici l’hanno spaventata”

Questa risposta comporta un giudizio morale che valuta negativamente una paura che può essere legittima da parte dell’assistita a proposito del rischio ereditario. Tale affermazione suona come una colpevolizzazione e non facilita di certo il proseguire il colloquio su questo importante tema. È prevedibile che la comunicazione si interromperà e l’assistita resterà con la sua preoccupazione.

  • Risposta tipo “supporto, sostegno”: “Non si preoccupi, il rischio è minimo”

Questa risposta vuole essere rassicurante, ma minimizza la preoccupazione vissuta dalla giovane donna, la quale non si sentirà capita e non sarà dunque portata ad aprirsi per poter affrontare lo spinoso tema. Bisogna diffidare delle “buone intenzioni” poiché possono suonare come banalizzanti su ciò che è invece importante per la persona.

  • Risposta tipo “investigazione, indagine”: “Ha in progetto di avere figli?”

L’infermiera, facendo questa domanda diretta, va dritta al tema centrale, ma induce criteri di decisione che non sono necessariamente quelli dell’assistita, non dando la possibilità di approcciare il tema dalla giusta angolatura, cioè quello della sua preoccupazione.

  • Risposta tipo “interpretazione”: “Lei teme di trasmettere il diabete ai suoi figli e pensa che loro o i suoi familiari potrebbero fargliene una colpa”

Questa risposta vorrebbe esplicitare, al posto dell’assistita, le ragioni profonde della sua domanda, ma dice di più o troppo rispetto a quanto è stato espresso (la persona assistita non ha parlato di colpa).

  • Risposta tipo “soluzione, decisione”: “Se ha questa preoccupazione possiamo prendere in considerazione una contraccezione adatta per lei”

L’infermiera suggerisce una soluzione che secondo lei risolverebbe il problema, ma facendo ciò evita l’aspetto fondamentale vissuto dall’assistita, ovvero la sua preoccupazione sul tema figli.

  • Risposta tipo “informazione oggettiva”: “Non ci sono evidenze scientifiche per dire che il diabete si trasmetterà sicuramente ai suoi figli”

Questo tipo di risposta non fa parte delle categorie considerate da Porter, ma è spesso utilizzata nei contesti di cura. Queste informazioni possono essere considerate utili, ma la verità scientifica non ha necessariamente un impatto sulle concezioni personali, tanto più quando sono cariche di emotività. Anche questo tipo di riposta non aprirà sicuramente il dialogo e l’assistita resterà con la sua preoccupazione.

  • Risposta tipo “fuga o evitamento”: “Bisognerà che ne riparli con il medico; ora veniamo a noi, come va la glicemia?”

Tale risposta evita di entrare nel merito della questione, non ritenuta argomento idoneo all’incontro con l’infermiera. Non si creerà di sicuro un’apertura al dialogo e l’incontro verrà vissuto come tecnico e circoscritto ai soli temi sanitari.

Le risposte sopra riportate manifestano una mancanza di ascolto di ciò che questa assistita, tra le righe, tenta di esprimere. In queste condizioni non può essere stabilita una vera relazione. L’ascolto dell’altro implica la facoltà di capire, nel senso di una comprensione sia intellettuale che affettiva. Non si tratta di essere d’accordo, ma di capire l’altro con la sua diversità e, nello stesso tempo, di farsi capire da lui.

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L’ASCOLTO E LA RIFORMULAZIONE

Il termine “ascolto” è diventato una sorta di luogo comune che, continuamente evocato, rischia di venir banalizzato. Non basta solo tacere per ascoltare. Ascoltare presuppone un atteggiamento nello stesso tempo recettivo e percettivo. Quando un medico ausculta un suo asistito, ascolta con la finalità di fare diagnosi, tende sia l’orecchio (ricezione) che la mente (percezione) per captare e comprendere il significato dei rumori interni. Lo stesso avviene nella relazione con l’assistito, dove si tratta non solo di capire il suo discorso, ma anche coglierne il contenuto emotivo.

Perché la comunicazione si stabilisca, bisogna mostrare all’altro che è stato capito. A tale scopo è utile riformulare ciò che l’altro ha detto.Riformulare significa riprodurre più che ripetere e riprodurre non solo con correttezza, ma anche con empatia, senza tuttavia utilizzare le stesse parole.

Se osserviamo come le persone si parlano nella vita di tutti i giorni, non vedremo mai l’uno o l’altro degli interlocutori riformulare ciò che ha sentito. Riformulare non fa parte delle nostre reazioni spontanee. Si tratta di una strategia di comunicazione tipica delle situazioni di relazione di aiuto che non sono né conversazioni, né discussioni, né interviste. “Così, secondo lei…”, “Se ho ben capito, lei vuole dire che…”, “In altri termini…”, “A suo avviso…”  sono alcuni dei modi di introdurre una riformulazione, che è un intervento che consiste nel dire in altri termini ed in modo più conciso o più esplicito ciò che l’interlocutore ha appena espresso. Riconoscendosi nella riformulazione la persona si sente capita e, quindi, spinta a dire di più. Questa tecnica mira principalmente a favorire l’espressione dell’assistito, ma permette anche di calibrare gli interventi dell’operatore, indicando la buona lunghezza d’onda sulla quale svolgere la comunicazione, che sia di aiuto sociale, pedagogico o terapeutico.

Così, nel nostro esempio, la riformulazione dell’affermazione della persona assistita avrebbe potuto essere la seguente:

Se ho ben capito, lei si interroga circa l’esistenza di una tara ereditaria e sul diritto di far correre dei rischi ai suoi figli

oppure

Lei è preoccupata dall’idea che i suoi figli potrebbero ereditare il diabete che lei vive come un handicap

Una risposta di questo tipo costituisce una verifica di ciò che è stato detto ed inteso, può dar luogo a rettifiche, a sfumature e, quindi, ad una progressione nella comunicazione. Secondo lo psicologo e psicoterapeuta Carl Rogers (Rogers, 1957, 1942; 1951) l’ascolto empatico è talmente importante da considerarlo condizione necessaria e sufficiente affinché si instauri una relazione di aiuto.

L’esempio prima riportato mostra chiaramente come sia molto più facile “sbagliare” risposta (e dunque chiudere il dialogo) piuttosto che fornire il necessario supporto linguistico ed ambientale affinché la comunicazione possa procedere ed evolvere.

Riformulare, come già detto, non fa parte delle nostre attitudini spontanee ma è un’abilità che va acquisita ed esercitata in continuazione. Una volta appresa i risultati saranno immediatamente e chiaramente manifesti.

Ecco un esempio di conversazione condotta in maniera “spontanea” o utilizzando l’ascolto attivo.

OPERATORE: Allora signora Rosa come è andata in questi mesi?

ASSISTITA: Non male, ma tra mio marito che sta male ed i miei figli… faccio fatica ad occuparmi del mio diabete…

OPERATORE: Capisco… ha il libretto dell’autocontrollo? Mi faccia vedere… le glicemie non sono migliorate di molto. Credo che il problema principale sia la terapia. Penso che sia ora di passare all’insulina.

ASSISTITA: Lo so, me ne ha già parlato diverse volte ma non mi sento pronta… non è il momento…

OPERATORE: Ha pensato a delle alternative? È da un po’ che ne parliamo, ma la situazione non migliora, dunque penso che sia urgente cambiare la terapia…

ASSISTITA: Ha ragione, è da un po’ che ne parliamo, ma non sono ancora pronta… preferisco ancora provare ad arrangiarmi…

OPERATORE: Abbiamo già provato, ma senza risultato purtroppo…

ASSISTITA: Eh sì, purtroppo…

OPERATORE: A questo punto non rimane alternativa allora!

Questa è una situazione tipica: l’operatore cerca di fare il suo lavoro (suggerire la miglior terapia), ma l’assistito resiste poiché non è disponibile a cambiare!

È sicuramente una situazione tanto frequente quanto frustrante, non solo per gli operatori ma per entrambe le parti coinvolte.

Adottando modalità comunicative leggermente differenti, che utilizzano accortezze linguistiche basate sull’ascolto attivo (sottolineato), il risultato cambia radicalmente:

OPERATORE: Allora, signora Rosa come è andata in questi mesi?

ASSISTITA: Non male, ma tra mio marito che sta male ed i miei figli ….faccio fatica ad occuparmi del mio diabete…

OPERATORE: Immagino…. ciò significa che è poco preoccupata per il suo diabete?

ASSISTITA: Sì…no…non so…

OPERATORE: Se ho ben capito non è facile per lei trovare un posto al diabete in mezzo alle altre preoccupazioni che ha…

ASSISTITA: Sì, sì… è così… comunque ci penso molto…

OPERATORE:Vorrei sapere qualcosa di più riguardo a cosa pensa del suo diabete.

ASSISTITA: Vedo che la situazione non migliora e so che dovrei passare all’insulina ma ho paura.

OPERATORE: Posso pensare che si sono molte ragioni per avere paura dell’insulina…. lei di che cosa ha paura?

ASSISTITA: Ne ho sentite tante… tante e cose contrastanti… non so più a chi credere.

OPERATORE: Vuole dire che è difficile orientarsi tra le tante informazioni che ha ricevuto sull’insulina?

ASSISTITA: Sì, non mi è molto chiaro, sono confusa.

OPERATORE: Vuole che le riprendiamo insieme?

ASSISTITA: Sì, mi farebbe piacere.

Queste poche parole, dette al momento e con il tono giusto, fanno prendere alla conversazione una piega completamente diversa, trasformando una sorta di braccio di ferro che si conclude senza vincitori ma solo con vinti e frustrati in una comunicazione costruttiva, funzionale e gratificante per entrambi.

Come sosteneva uno spot sulla comunicazione “Change your words. Change your world!” [www.youtube.com/watch?v=6qpcB82aUz4 – https://youtu.be/XVY4DeAvnfI].

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Bibliografia

Mehrabian A (1981). Silent Messages: Implicit Communication of Emotions and Attitudes.Belmont, CA: Wadsworth, 1981

Porter EH (1950). Introduction to Therapeutic Counseling, Houghton Miffling Co, Boston,

Rogers C (1942).Psicoterapia di consultazione, Astrolabio, 1971 (prima edizione americana 1942)

Rogers C (1951). Terapia centrata sul cliente, La Nuova Italia, 1997 (prima edizione americana 1951)

Rogers C (1957). Counseling and Psychotherapy: Newer Concepts in Practice, Houghton Miffling Co, Boston

Watzlawick P, Beavin, JH, Jackson DD. (1971). Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi (1967), Roma, Astrolabio, 1971

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