Cap. 4 – Medicina e filosofia: l’importanza della riflessione e della formazione multidisciplinare

Capitolo del Manuale per operatori “Educare alla Salute e all’Assistenza”
Autori: Mario Casini, Anna De Odorico
Indice del Capitolo  

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La scelta di redigere questo capitolo in forma di dialogo nasce dalla volontà di rendere esplicito e immediatamente visibile il contenuto che si è andati a trattare. Da un lato si vuole mostrare come sia possibile avviare un dialogo costruttivo tra due discipline (la medicina e la filosofia) apparentemente così lontane; dall’altro si vuole mostrare come la forma del dialogo socratico, pratica squisitamente filosofica, possa essere utilizzata e possa essere formativa anche per gli operatori sanitari. Attraverso il dialogo i partecipanti si definiscono analizzando differenze e similitudini professionali, e mettono in atto una relazione generativa, ovvero in grado di produrre una vera e propria ricchezza, un bene che può essere scambiato proprio grazie al dialogo stesso.

 

PERCHÉ MEDICINA E FILOSOFIA ASSIEME?

Mario: Medicina e filosofia, un medico e una filosofa in un manuale per operatori sanitari. Se la presenza di un medico si spiega facilmente, quella di una filosofa può sollevare delle perplessità.

Anna: Hai ragione, Mario. Oggi la filosofia viene spesso guardata con sospetto da voi medici.

M: Magari non proprio con sospetto, ma è sicuramente vero che noi medici non studiamo filosofia, se non per nostro personale diletto. La formazione di un medico non prevede lezioni di filosofia.

A: Con l’avvento del positivismo nell’Ottocento, i termini ‘filosofico’ e ‘scientifico’ iniziano a connotare due diversi modi di pensare, di studiare e lavorare. La filosofia viene percepita come teorica, astratta, irrazionale, indimostrabile e quindi inutile. La scienza, invece, viene considerata pratica, concreta, osservabile e per questo vera e applicabile in modo pratico. Chi, come voi, ha avuto una formazione scientifica e tecnica, non sempre accetta di buon grado termini come ‘filosofia’ o ‘filosofico’ (Napolitano Valditara, 2011a).

M: E quindi perché un medico e una filosofa si confrontano in questo manuale?

A: Ci dimentichiamo che storicamente filosofia e medicina erano strettamente intrecciate, il sapere medico faceva parte delle scienze umane e i medici erano prima di tutto filosofi. So che le mie parole potranno sembrare un azzardo, ma, proprio a partire da questo dato storico, sono dell’idea che la medicina sia anche una disciplina umanistica. Uso questa parola per la sua derivazione dal latino humanus, che deriva a sua volta da homo, cioè uomo. Fino a prova contraria la medicina è una scienza che mette al suo centro l’uomo. Compito del medico è curare gli esseri umani, le persone. Con l’avvento della medicina moderna, però, ci si è dimenticati che l’uomo non è solo soma (corpo), non è solo un insieme di organi e funzioni vitali, ma è anche molto altro. Proprio in virtù di questa dimenticanza, penso sia importante riaprire un dialogo tra la medicina, considerata disciplina solamente scientifica e che si sta occupando solo del corpo, e la filosofia, disciplina umanista per eccellenza, il cui cuore è proprio l’umano.

Credo sia possibile e deontologicamente necessario recuperare questo legame tra saperi e questo modo originario di leggere e interpretare la cura. Ancora oggi, quando voi medici iniziate la vostra carriera, dovete prestare il giuramento di Ippocrate, vero? Ebbene: Ippocrate rivoluzionò il concetto di medicina, la rese un sapere e un’arte, liberandola dalla subordinazione alla pratica rituale (teurgia). Sosteneva anche che “somiglia a un dio il medico che sia anche filosofo”.

M: Cosa significa?

A: Lo spiega bene K. Jaspers, un medico che negli anni ‘50 conduce una profonda riflessione sulla medicina moderna. Il “medico che si fa filosofo” non è colui che si limita a studiare anche filosofia, ma è il medico che agisce filosoficamente; il medico che praticando la sua professione, riflette sul suo lavoro e sulle norme che lo regolano. Jaspers denuncia quelli che per lui sono i limiti del metodo tecnico-scientifico: la medicina spiega i fatti, senza comprenderne il significato e senza indagare il senso più profondo del lavoro del medico (Napolitano, 2011b).

M: Lavoriamo sul “come” e non sul “perché”?

A: In un certo senso è questo che vuole dire Jaspers. Sulla base del progresso tecnico-scientifico, i medici sono oggi in grado di fare cose inimmaginabili fino a pochi anni fa, ma manca una riflessione approfondita sul perché si devono (o si dovrebbero) fare queste cose (Jaspers, 1991). Come tu stesso mi potrai confermare, c’è una forte dissimmetria tra le capacità della scienza e la riflessione etica e il quadro normativo che dovrebbe regolare l’utilizzo di queste conoscenze. La filosofia può guidare il medico in questa indagine, può aiutarlo a riflettere sul perché e sui significati dell’agire. La specializzazione è un fatto irreversibile, la ricerca scientifica continua ad accrescere il sapere e l’abilità tecnica, le metodiche sono sempre più affinate, si ha la pretesa di avere tutto sotto controllo, ma ci si dimentica che l’umano non è pianificabile, ma è imponderabile. Io credo che in questo momento storico, ci sia un grande bisogno di riflessione di fronte a tutti questi rapidi cambiamenti.

M: Stiamo vivendo un imprevedibile passaggio d’epoca. Un’unica generazione ha visto una trasformazione nella cura delle malattie prima inimmaginabile: gli antibiotici sono riusciti a curare le malattie batteriche, i vaccini hanno debellato molte patologie, i chirurghi hanno aperto cuori, trapiantato organi e rimosso tumori prima inoperabili. Si è venuta a creare una visione un po’ eroica della medicina. I medici hanno iniziato ad essere visti come dei ‘salvatori’ e il nostro sistema sanitario è stato costruito come se fosse il corpo dei vigili del fuoco. Ci siamo formati con questa logica di una medicina che interviene in maniera decisiva in un momento critico della vita di una persona con risultati chiari, calcolabili e per lo più risolutivi.

A: Una medicina basata sulla cura dell’acuto?

M: Esattamente. Curare era una tecnica lineare, bastava un approccio causa-effetto: se il paziente aveva la tosse e la febbre, la visita evidenziava una broncopolmonite e tutti erano d’accordo sul fatto che un antibiotico in cinque giorni avrebbe fatto guarire la patologia.

Oggi, però, la medicina non è più soltanto questo. Siamo di fronte a delle grosse trasformazioni sociali e a dei forti cambiamenti nel mondo della cura e dell’assistenza. La popolazione sta invecchiando e di conseguenza cambiano le problematiche di salute. Sono comparse le malattie croniche e sono aumentate, insieme alla speranza di vita, le “pluripatologie”. Abbiamo scoperto di essere poco preparati ad affrontarle perché tutto diventa più vago, incerto. Molte delle cose che oggi fanno soffrire le persone richiedono tempi lunghi di cura e quindi pazienza. Se prima le decisioni potevano essere definitive, ora spesso sono solo provvisorie e sono soggette a continui aggiustamenti e non sempre si arriva ad una cura definitiva.

Molti modi di concepire e interpretare la realtà dell’assistenza sembrano essere irrimediabilmente entrati in crisi. Le certezze del passato non sono in grado di comprendere i rapidi cambiamenti che stiamo, più o meno consapevolmente, osservando ed è sempre più difficile prevedere il futuro. Questo è un tipo di imprevedibilità che gli esseri umani non amano e non sanno fronteggiare soprattutto quando pensano di poter prevedere il futuro basandosi su quanto è avvenuto nel passato, che è come pensare che la macchina si può guidare guardando esclusivamente nello specchietto retrovisore (Taleb, 2007).

A fronte del bisogno dei professionisti di ridurre la realtà ad uno schema precostituito, la complessità dell’assistenza richiesta e la fitta trama di relazioni che oggi compongono il sistema dei servizi rendono difficilmente utilizzabile una logica di controllo di tipo lineare e sequenziale. Emerge la necessità di uno stile di pensiero più complesso, capace di intrecciare percorsi che apparentemente sembrerebbero incompatibili.

Gli operatori sanitari oggi sono posti di fronte ad una esigenza di adattabilità senza precedenti; devono continuamente cercare di far coincidere l’insieme delle loro conoscenze con le aspettative della società. I professionisti operanti nelle organizzazioni sociosanitarie sono spesso chiamati a svolgere compiti, come ad esempio gestire la complessità dell’assistenza, per i quali non sono stati preparati. «Il contesto non è più adatto alla formazione, o la formazione non è più adatta al contesto» (Brooks H., Harvard School of Applied Physics, comunicazione personale dell’autore).

Nei prossimi anni il ruolo dei professionisti sarà continuamente ridefinito dalla riorganizzazione e razionalizzazione delle loro organizzazioni: cambierà la domanda, cambieranno i compiti, cambieranno le conoscenze realmente utilizzabili.

Nelle organizzazioni sociosanitarie e in tutto il mondo dell’assistenza purtroppo domina il fare, presto e bene, mentre bisognerebbe incominciare a dare più spazio alla riflessione, cioè al pensare, e alla condivisione dei risultati di questa azione. Uno dei compiti della dirigenza dovrebbe essere quello di favorire e stimolare questa attività.

A: Dalle tue parole risulta evidente che siamo di fronte ad un momento cruciale, in cui la medicina e l’assistenza devono decidere quali siano le strade nuove e migliori da percorrere. Credo che dai momenti di passaggio e di forti cambiamenti, dai momenti di crisi e transizione, come quello che stiamo vivendo ora, ci sia molto da imparare e vale la pena soffermarsi a riflettere sui cambiamenti per trarre nuovi significati e orizzonti di senso.

M: La riflessione ci aiuta a capire e a cambiare con il mondo che cambia, mentre il non concedersi uno spazio di riflessione ci permette solo di lamentarci del cambiamento, cosa che, ahimè, succede spesso.

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IL MEDICO LIBERO E IL MEDICO SCHIAVO

A: Proviamo allora a ragionare insieme. Il primo punto su cui credo valga la pena soffermarsi è la relazione tra medico e paziente, ovvero la base stessa della medicina. Vorrei parlarti della medicina nell’antica Grecia, perché, a differenza di quanto si possa immaginare, trovo sia molto attuale. Nel IV libro delle Leggi, Platone illustra in modo semplice e chiaro l’organizzazione che regola i rapporti tra i medici nella Grecia del IV secolo a. C. Vi è una vera e propria gerarchia tra medici e assistenti. Gli assistenti padroneggiano l’arte medica solo in base alle indicazioni e alle competenze dei loro superiori. Si limitano ad obbedire ai medici che assistono, non agiscono in virtù di una competenza propria, non sono in grado di prendere decisioni in autonomia (Platone, Leggi, IV). Personalmente, già in questo breve passaggio, vedo una continuità nella distinzione che sussiste ancora oggi tra tirocinanti/specializzandi, e i loro insegnanti.    
Ancor più interessante credo sia però la distinzione che Platone propone tra medico libero e medico schiavo. Non dobbiamo farci ingannare dai termini ‘libero’ e ‘schiavo’; nonostante la divisione tra liberi e schiavi fosse realtà all’epoca in cui scrive Platone, non è a questa realtà cui il filosofo fa riferimento. Egli, infatti, utilizza questi due termini per dare una connotazione morale e soprattutto deontologica al modo di operare dei medici.

M: Morale e deontologica? Spiegami meglio.

A: Platone utilizza i termini ‘libero’ e ‘schiavo’ per descrivere due modi diversi di lavorare e di concepire il lavoro del medico, due diverse deontologie mediche. E nel fare questo dà un netto giudizio etico di queste.

M: E quindi chi sono il medico schiavo e il medico libero?

A: Partiamo dal medico schiavo. È definito schiavo quel medico che è privo di una conoscenza approfondita e completa della natura del corpo umano e delle interazioni di questo con le leggi del cosmo. Non opera sulla base di un sapere e di una saggezza derivate dallo studio, ma si basa solamente sulle esperienze che ha fatto e a cui non ha fatto seguito una riflessione. Le sue conoscenze sono per questo approssimative, limitate e prive di fondamento scientifico. Per riprendere quanto detto prima su Jaspers, di fronte ai sintomi denunciati dal paziente, egli spiega sommariamente i fatti, senza essere capace di comprenderli nel loro significato. Ecco qui dunque la prima forma di schiavitù: questo medico è schiavo della sua ignoranza, della sua incompetenza, della mancanza di conoscenze, per cui è in grado di pronunciare solamente diagnosi approssimative e magari scorrette.

Il fine di questo medico è di tipo economico e per questo si sposta sempre alla ricerca di nuovi pazienti da curare. Diviene così schiavo di quelli che sono, a tutti gli effetti, dei semplici clienti a cui offrire una prestazione al fine di chiedere un compenso. Il suo fine non è il benessere della persona, ma solamente l’arricchimento personale.

Questo influisce in modo significativo sul rapporto con il paziente. Essendo sempre alla ricerca di nuovi guadagni, non ha tempo da perdere e per questo dedica poco tempo alle visite. Non ha tempo da dedicare alla conoscenza della persona, allo studio dei sintomi, alla identificazione di una diagnosi e di una terapia corretta. Non fornisce spiegazioni al suo paziente, non si dilunga nelle indicazioni terapeutiche, ma si limita a imporre la terapia con l’alterigia di un tiranno (queste le parole di Platone). E, dopo averlo fatto, con un salto si rivolge ad un altro malato.

M: Piuttosto sconfortante come descrizione. Spero che la figura del medico libero lasci qualche speranza in più!

A: Indubbiamente, e credo abbia molto da poterci insegnare. Il medico libero esibisce competenze ed impiega metodi dei quali pare invece privo lo schiavo; le competenze e i metodi del primo appaiono di gran lunga migliori e più efficaci rispetto a quelli propri del secondo (Napolitano Valditara, 2011b). Il medico libero conosce molto bene la natura del corpo e delle patologie che lo possono affliggere. È in possesso di una conoscenza vasta e approfondita, che è la base della sua stessa professione. Egli indaga le patologie a partire dal principio, ovvero ricercando le cause più profonde, e secondo natura.

Il medico libero innanzitutto si preoccupa di conoscere il suo paziente e l’ambiente in cui vive, in particolar modo la famiglia. Nel percorso di cura coinvolge attivamente il paziente, ma anche i suoi famigliari. Li rende partecipi del suo sapere, ma allo stesso tempo impara da loro. Questo passaggio è molto interessante: il medico insegna e impara, dando vita ad uno scambio, un dialogo, una vera e propria collaborazione. La creazione di un dialogo è fondamentale per la cura. Il medico deve tranquillizzare il paziente e deve persuaderlo a seguire la terapia migliore. Ne nasce una vera e propria alleanza terapeutica, che trova il suo fondamento nella relazione tra due persone, che è già di per sé strumento di cura (Vaccher, 2011).

M:  Trovo sia molto attuale quanto dici. Alcuni studi hanno recentemente dimostrato che le cure primarie ed in particolare la medicina generale sono fondamentali per garantire una buona salute e qualità della vita delle persone, non solo in Italia. Un aspetto importante di questo successo è determinato dal fatto che le persone hanno stabilito una relazione duratura con i loro medici (Gawande, 2016).

A: La proposta platonica mi ricorda molto quella fatta da Slow Medicine, quando parla di comunicazione cooperativa, o di ascolto attivo; è una modalità di scambio tra professionista e paziente il cui obiettivo risponde al patto comunicativo, in cui ciascuno deve cooperare attivamente con l’altro per migliorare la reciproca comprensione e individuare un obiettivo condivisibile e desiderabile per entrambi (Bert, 2013). E, ancora una volta, è Jaspers a rifarsi a Platone quando dice che il medico è l’esperto che mette a disposizione del paziente il proprio sapere e la propria abilità, sia sotto forma di azione che, al contempo, di insegnamento (Jaspers, 1991). Il medico libero, insomma, instaura un rapporto di collaborazione e dialogo, aperto allo scambio delle informazioni, concorda le procedure terapeutiche in modo chiaro e insegna la cura. A me sembra che questi siano i cardini dei moderni consenso informatoe compliance. Tu che ne pensi, Mario?

M: Credo che Platone abbia ragione. I pazienti non possono essere considerati una massa indifferenziata su cui applicare uno specifico protocollo. Spesso si perde di vista il fatto che il paziente è prima di tutto un individuo con specifiche caratteristiche, una storia, delle relazioni, tra cui la relazione con il proprio medico e con chi lo sta assistendo nelle cure.

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RIPENSARE LA RELAZIONE TRA MEDICO E PAZIENTE

A: A partire dalla tua esperienza, come descriveresti la moderna relazione tra medico e paziente?

M: La relazione di cura che ancora viene insegnata nelle nostre università è una relazione di tipo “verticale”: il medico che cura ‘sta sopra’, il paziente che si fa curare “sta sotto” e si affida a lui, che è il tecnico e quindi sa cosa va fatto. La realtà dei fatti è però molto diversa. Il paziente moderno è più informato, anche se spesso non in modo corretto, ed è più conscio dei propri diritti (si pensi alle molte organizzazioni per la tutela dei diritti del malato); l’offerta delle cure non è più monolitica, è molto variegata, e il paziente ha la possibilità di scegliere da chi farsi curare e come affrontare e gestire il percorso terapeutico.        
La relazione di cura oggi si snoda attraverso una negoziazione medico-paziente che avviene anche su un piano orizzontale più paritario; in modo apparentemente paradossale, chi accudisce deve negoziare la possibilità di accudire.        
Spesso questi cambiamenti della relazione medico – paziente vengono percepiti dagli interessati come una caduta irreversibile di saperi autorevoli, incarnati da figure sociali indiscusse.

A: Ho osservato che, paradossalmente, di fronte ad una medicina che sta raggiungendo un livello altissimo di conoscenze e tecnologie, le persone si rivolgono sempre più spesso alle ‘medicine complementari’. La medicina tradizionale ha a disposizione una tecnologia avanzatissima, ma la iperspecializzazione ha allontanato il medico dalla relazione. Le cure alternative puntano tutto sull’aspetto relazionale e per questo hanno molto successo. Credo, quindi, che un ripensamento della relazione sia necessario.

M: È vero. Spesso i professionisti individuano la causa di questa situazione unicamente in fattori esterni (come, ad esempio, la diffusione dell’informazione biomedica di massa) mentre il modo di partecipare del professionista all’interazione comunicativa con il paziente non sembra avere alcun valore, nè sembra influenzare gli atteggiamenti del paziente stesso.

C’è una visione unidirezionale della relazione, per cui le relazioni funzionano in una logica lineare secondo una successione da emittente a destinatario, isolate da un più ampio processo comunicativo e dal contesto.

Questa visione è molto diffusa tra le professionalità sanitarie e fornisce mappe dell’interazione comunicativa riduttive e modalità d’azione ignare di concorrere attivamente a produrre i circuiti comunicativi. Sarebbe quindi opportuno sviluppare “un nuovo sapere” delle relazioni, che assuma come unità d’analisi l’intero processo comunicativo, mettendo in luce il carattere attivo di tutti i partecipanti alla relazione.

Bisogna trascorrere meno tempo ad apprendere come far funzionare tecnicamente le cose e più tempo a chiedersi che senso hanno. G. Bateson (1976) ha più volte sottolineato che «la relazione viene prima, precede», intendendo che noi esseri viventi, nel bene come nel male, non possiamo non essere in relazione e dipendenti gli uni dagli altri. In questo modo Bateson capovolge l’idea per cui l’autonomia passa prima dall’affermazione del proprio io e solo successivamente può avvenire l’incontro con l’altro; l’autonomia personale e professionale passano innanzitutto dal loro riconoscimento da parte dell’altro.    
La realtà dei fatti, però, è molto diversa da quella auspicata da Bateson. Oggi c’è una vera e propria fuga del medico dalla relazione a favore di una logica di tipo prestazionale, che è un non voler riconoscere l’imprevedibilità delle relazioni di cura a lungo termine a favore della certezza della singola prestazione. Questa, infatti, non coinvolge e anestetizza ogni eventuale coinvolgimento, allontanando ulteriormente il medico dal paziente.

A: Pensando anche alle parole di Platone, sono sempre più convinta che il cuore del problema sia nella visione verticale della relazione e, di conseguenza, nella comunicazione.

La relazione terapeutica è sempre di tipo asimmetrico, ma potremmo vederla come una disparità mobile, non fissa, e proprio per questo fertile. Se il medico è l’esperto della cura, il paziente è l’unico vero esperto della sua malattia, perché è lui che la vive sulla sua pelle. La relazione deve essere vissuta come uno scambio, innanzitutto di informazioni. Se il medico si pone in una posizione di superiorità e inaccessibilità, il paziente, temendo di dire banalità e di essere giudicato, cela alcuni dati che potrebbero rivelarsi invece fondamentali per la cura. L’esperienza parlante dell’altro può aprire lo sguardo, offrire a ciascuno dei due interlocutori nuove prospettive, nuovi spunti. In questo senso la relazione con disparità mobile arricchisce anche il curante e può far accadere qualcosa di inaspettato, come per esempio un elemento chiave per la cura.       
È però possibile stare in una relazione bilateralmente implicante solamente se l’’io’ si rimpicciolisce permettendo che il campo di visuale si allarghi. Si tratta infatti di allargare lo sguardo e non di allungarlo: è importante stare in presenza, ovvero concentrarsi sul momento presente, senza riempire la relazione di attese per il futuro e di conoscenze pregresse date ormai per certe. Non si deve voler entrare nel campo portando immediatamente tutti i saperi possibili, che devono invece rimanere sul fondo. È come un film girato dagli attori in scena ma anche dalla regia: le scenografie sono le conoscenze, il portato scientifico-teorico del curante e l’obiettivo futuro della guarigione (o anche solo della miglior cura possibile), mentre gli attori in primo piano rappresentano la relazione fra operatore e paziente.        
Non invadere il campo significa anche non ingombrare la relazione con giudizi e con il “dover essere” (“devo essere un bravo medico, devo fare una buona diagnosi, devo trovare la terapia migliore, devo far tornare in salute il paziente”; “il paziente deve curarsi, deve combattere la malattia, deve guarire”): questo piuttosto può essere sostituito dal “lasciar essere”. Solo così possono profilarsi delle autentiche occasioni, cioè dei luoghi in cui può nascere qualcosa di più grande e nuovo.         
Credo che questo possa essere un modo di far fronte alla complessità odierna, che non va osteggiata ma riconosciuta e accolta. La complessità è a tutti gli effetti un arricchimento.

M: Mi pare di capire che, invece di difendersi con rabbia ed insofferenza dalla relazione complicata con i pazienti, sia più utile andare alla ricerca di tutti quegli atteggiamenti e comportamenti che possono riportare la relazione ad una dimensione di cooperazione e non più di contrapposizione. Credo sarebbe importante introdurre nella formazione dei professionisti sanitari degli spazi per imparare nuovi modi per rapportarsi con i pazienti.

A: Non esistono momenti di formazione dedicati alla cura della relazione?

M: No, o per lo meno non si tratta di una formazione strutturata. La nostra università è concepita per trasmettere conoscenze scientifiche, tecniche e procedure consolidate, e protocolli ben definiti. Insegna l’uso di metodologie e tecnologie, trasmette un sapere formale che, per sua natura, non è mai sufficiente per affrontare le quotidiane situazioni di cura, spesso non riconducibili a soluzioni standard e per lo più imprevedibili in termini probabilistici. Secondo la razionalità scientifica, l’attività professionale dovrebbe consistere nella rigorosa applicazione di teorie, procedure e tecniche validate.

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RIPENSARE LA FORMAZIONE: LA CONOSCENZA TACITA,   LA RIFLESSIONE CONDIVISA, IL DIALOGO SOCRATICO

A: Quindi gli obiettivi formativi sono quelli cognitivi, cioè il sapere, e quelli gestuali, ovvero il saper fare?

M: Esattamente. Ma tra la scienza che viene insegnata all’università e la pratica professionale c’è una bella differenza. Tutti i professionisti, grazie all’esperienza, sono in possesso un vasto bagaglio di know-how, una conoscenza tacita che viene misconosciuta, quasi sempre sottovalutata o ignorata.

A: Cosa intendi per conoscenza tacita?

M: La conoscenza tacita è un complesso di saperi generati dall’esperienza. L’esperienza è una forma di conoscenza pratica, derivata dall’aver esercitato a lungo l’arte medica. Più facciamo esperienza, più acquistiamo padronanza nell’agire professionale, più diventiamo esperti. In questo senso l’esperienza professionale consiste nella capacità d’utilizzare abilità individuali acquisite grazie a una raccolta non sistematica d’informazioni, osservazioni e conoscenze, che ogni professionista fa sue, elabora soggettivamente e applica al “come” pratica la sua specifica attività professionale.
La vita professionale è un susseguirsi d’esperienze che, più o meno consapevolmente, elaboriamo per affrontare situazioni di incertezza e per sviluppare comportamenti adattivi.        
Nel corso della nostra vita professionale attuiamo un processo d’apprendimento di cui siamo attivi protagonisti. Attraverso la pratica professionale rielaboriamo e/o riorganizziamo quanto appreso in termini di teoria e pratica e creiamo delle nuove conoscenze. Apprendere dall’esperienza implica la capacità di disapprendere per apprendere (Bateson, 1980), ossia la capacità di metabolizzare e rigenerare, autopoieticamente, cioè autonomamente e dall’interno del nostro stesso sapere, conoscenze e modelli mentali e di comportamento professionale. Ogni esperienza, infatti, fa da modello per le esperienze future solo se attiva una riflessione che integri aspetti cognitivi, emotivi, volitivi, nonché gli aspetti sociali, così che arriviamo ad aggiornare consapevolmente alcuni aspetti della nostra pratica professionale.

A: Mi pare di capire che, nella gestione della complessità, voi professionisti vi affidiate da un lato ad un approccio sistematico, basato su protocolli e sistemi validati, dall’altro utilizziate spesso strategie di tipo euristico, ovvero vi affidiate all’intuito affinato dalla vostra stessa esperienza.

M: Esattamente. Si tratta di vere e proprie competenze, indispensabili per il medico, che però non sono formalizzate e non trovano uno spazio di condivisione e trasmissione tra colleghi.

A: Forse si dovrebbe cercare una nuova formula educativa per sviluppare questo tipo di competenze. Dopo aver raggiunto gli obiettivi cognitivi e gestuali, sarebbe utile creare dei luoghi (o momenti) di formazione per sviluppare le capacità relazionali, ovvero il saper essere, e le capacità metacognitive, il saper sapere o, più semplicemente, la capacità di riflettere sulle proprie azioni.

M: Hai già qualcosa in mente? La filosofia può offrire altri spunti?

A: Credo di sì. Sicuramente proporre delle lezioni frontali, di tipo accademico, è impossibile, perchè manca un sapere sistematizzato e organizzato di queste conoscenze; e perchè una impostazione di questo tipo non credo possa funzionare se proposta a dei medici che esercitano da tempo la professione. Bisogna pensare ad una forma di apprendimento diversa da quella tipicamente accademica.

Ancora una volta il mio pensiero va all’antica Grecia, in particolare a Socrate. Socrate utilizza il linguaggio quotidiano come punto di partenza imprescindibile per la sua ricerca. A partire dall’esperienza dei suoi interlocutori il dialogo socratico si svolge in un susseguirsi di proposte e confutazioni, il cui scopo è giungere ad una verità universale o, laddove questo non è possibile, si cerca di arrivare al “meno confutabile dei discorsi umani” (Platone, Fedone).          
Il dialogo socratico inizia sempre con una domanda, che in Socrate suona per lo più come un ‘che cos’è x?’. Il filosofo chiede ai suoi interlocutori un’opinione personale formulata sulla base della propria esperienza e storia personale (nulla di astruso e complicato, quindi). Chiede poi di rendere ragione di questa esperienza e di questa opinione. Socrate non si accontenta di una narrazione, ma pretende una riflessione approfondita su questa esperienza (Napolitano Valditara, 2016). Io credo che la dialettica socratica possa essere considerata una forma di apprendimento basata su un processo di ricerca attiva e quindi ancora oggi adatta ad un pubblico di professionisti.

M: Pensi che questo tipo di dialogo si possa declinare anche in gruppi? O può essere utilizzato solo in un dialogo tra due o tre persone?

A: Certamente; Luo Marinoff, nel suo libro “Platone è meglio del Prozac” (2001) ne parla ampiamente. È una pratica che già viene utilizzata anche in contesti sanitari, come ad esempio al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, dove ogni anno una giornata intera viene dedicata a workshop diversi il cui cuore è proprio la riflessione a partire dall’esperienza. È certamente possibile (e secondo me auspicabile) creare dei luoghi di apprendimento collaborativo in tutte le organizzazioni sanitarie, aprire degli spazi in cui gruppi di professionisti, anche diversi, possano condividere, raccontare e ascoltare esperienze vissute. Raccontare un’esperienza, metterla in parola e darle un nome e condividerla, permette di oggettivare il proprio racconto e quindi di guardarlo dal di fuori, offre un punto di vista diverso che permette di ampliare i propri orizzonti di pensiero. Ovviamente non ci si deve fermare alla narrazione, altrimenti si incorre nel rischio che tu hai denunciato poco fa, ossia quello dello sterile comunicazione di lamentele. La riflessione condivisa è un momento fondamentale, in quanto permette di organizzare l’esperienza e di darle significato.

La pratica riflessiva promuove l’acquisizione di competenze a vari livelli:

  • dal punto di vista delle conoscenze favorisce l’acquisizione di un quadro epistemologico e valoriale di riferimento;
  • dal punto di vista delle abilità pratiche permette di sviluppare la cura di sé e quindi la cura dell’altro, perché permette di comprenderlo più efficacemente;
  • dal punto di vista dei comportamenti allena alla comunicazione e alla relazione con i colleghi;
  • dal punto di vista valoriale permette di ripensare il significato della cura in ambito sia clinico che educativo (Suter, 2016).

Attraverso la riflessione condivisa è quindi possibile dare una forma alla conoscenza tacita di cui tu stesso hai riconosciuto le potenzialità.

M: Mi trovi d’accordo. Oggi tutto deve essere eseguito seguendo precisi protocolli, mentre la ricerca scientifica sta procedendo verso una medicina sempre più personalizzata, in cui l’esperienza ha un ruolo chiave.         
Dalle tue parole emerge la necessità di imparare a ‘vedersi’ lavorare, di autovalutarsi e soprattutto di farlo assieme ai propri colleghi. Mi immagino una sorta di ‘laboratorio’ tra professionisti: un insieme di incontri in cui la tempistica, le regole e gli obiettivi sono decisi dai partecipanti stessi. Un luogo in cui mettere al centro l’esperienza. Tutte le persone coinvolte nel laboratorio hanno la possibilità di diventare gli ‘esperti’ di questa esperienza, proprio perché portatori di esperienze essi stessi.

In un laboratorio strutturato in questo modo, si crea una comunità temporanea, un gruppo di ‘identità’ ben definite, che danno avvio ad un ‘ascolto partecipato’, in grado di dare senso alle esperienze narrate e alla relazione che si crea. È una relazione generativa, cioè in grado di sviluppare quello che Sergio Manghi definirebbe un «diverso sapere delle relazioni». Si tratta di un «bene relazionale», ovvero che può essere scambiato tra le persone: attraverso la relazione si crea uno scambio di conoscenza, che è evolutivo, nel senso che si genera e si rigenera, diventando un vero e proprio strumento operativo (Nussbaum, 2004).    

Laboratori di questo tipo sono vera attività di formazione al saper essere e al saper sapere: lo scambio di conoscenze nate dall’esperienza professionale vissuta dai singoli partecipanti favorisce sia la capacità di raggiungere una meta-posizione rispetto al proprio essere professionista (racconto la mia esperienza al gruppo e il gruppo aiuta a “vedermi” mentre faccio il professionista), sia la co-costruzione di una nuova conoscenza condivisa da parte del gruppo. Ne emerge la consapevolezza di lavorare non solo accanto alle altre persone, ma insieme.

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PRENDERSI CURA DI CHI CURA

A: Vorrei spingermi oltre. Sono convinta che questi spazi di condivisione e riflessione possano essere anche uno strumento per la cura dei professionisti stessi.

M: Cura per i professionisti? Spiegami meglio cosa intendi dire.

A: Troppo spesso ci si dimentica di quanto sia importante, come vero e proprio strumento professionale, la cura di sé e lo star bene con se stessi e con il proprio lavoro (to care) per poter offrire ai pazienti le cure e le attenzioni migliori (to cure) (Mortari, 2009 e 2015). Prendersi cura di sé è una pratica imprescindibile per potersi prendere cura degli altri.         
Per quanto li si consideri dei tecnici, difficilmente ci si preoccupa dello stato di salute fisico ed emotivo degli operatori sanitari, raramente ci si interroga sul modo in cui vivono il loro lavoro e su come questo influisca sulle loro esistenze. Questo dato viene troppo spesso dimenticato, tralasciato o dato per scontato come questione vivibile e risolvibile individualmente.         
La filosofia si offre come strumento di indagine e di riflessione per poter pensare e trasformare le pratiche di cura a partire dalla cura di sé. Prendersi cura di sé significa, ancora una volta, partire dal proprio vissuto e dalle proprie esperienze, nonché capire cosa possa aiutare a migliorare il rapporto con il proprio lavoro, con i pazienti, con i colleghi, attraverso la ridefinizione del senso stesso della cura e del proprio lavoro.    
Condividere le proprie esperienze, i propri sentimenti, dar loro un nome, aiuta a lenire il senso di solitudine che spesso pervade gli operatori sanitari. Ascoltare la parola dell’altro e sentirla vibrare con la propria, mostra come i vissuti siano spesso simili, e in questo modo il senso di solitudine e isolamento, provato spesso dagli operatori, si attenua. Ascoltare le parole altrui può aiutare a riconoscere i propri sentimenti e a far luce su ciò che prima veniva celato perfino a se stessi e che non ci si autorizzava neppure a provare. 
La riflessione condivisa può essere un vero e proprio strumento di cura per chi cura, un aiuto nella prevenzione di tutti quei fenomeni di stress, ansia e burn-out di cui si denunciano sempre più casi (Maslach, 1992).

M: A maggior ragione, dopo queste tue parole, mi sento di dire che creare degli spazi di riflessione e condivisione tra professionisti sia un obiettivo irrinunciabile per la formazione e la professione medica. Mi sembra inoltre evidente che, in un contesto multidisciplinare tipico della medicina moderna, la filosofia può presentarsi come valido strumento per la formazione, la riflessione e l’arricchimento delle discipline mediche.     
Come dicono i Sufi: «La conoscenza che non ti porta al di là di te stesso è molto peggio dell’ignoranza».

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Bibliografia

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Marinoff L (2001) Platone è meglio del Prozac, Edizioni Piemme, Milano

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Ulteriori riferimenti bibliografici

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