Capitolo 3 – “Leggere la complessità e la ricchezza della persona fragile”

Capitolo 3 – “Leggere la complessità e la ricchezza della persona fragile”

Franco Prandi, Giovanna Artioli

Indice del capitolo

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Abbiamo bisogno di un pensiero

che cerchi di riunire e organizzare

le componenti (biologiche, culturali, sociali, individuali)

della complessità umana

e di iniettare gli approcci scientifici nell’antropologia.

(Morin 2002)

Sintesi

Si è consolidato un sistema di offerta di servizi, adeguati magari nella dimensione tecnica ma non sempre convincenti dal punto di vista del cittadino.

Partendo dalla complessità come chiave di lettura della realtà si è proceduto a offrire elementi di lettura dei fenomeni di salute/benessere proponendo come premessa il fatto che la salute è un disegno globale individuale e sociale, non espropriabile, cui i servizi che hanno cura si propongono come risorsa in un cammino continuamente da riformulare e da tracciare.

Contribuire alla salute /benessere di una persona significa entrare in relazione, definire in modo condiviso contesto, attese e carenze da cui far scaturire la definizione del possibile contributo di ciascun professionista e delle diverse organizzazioni. In un qualche misura non esiste la fragilità in astratto ma persone che vivono tale condizione, ciascuno in modo assolutamente unico e irripetibile, perché la condizione specifica si confronta continuamente con il vissuto, con le risorse e le opportunità che il contesto esprime.

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Introduzione

Diversi fenomeni, oggettivamente legati all’evoluzione della società, sulla spinta di fattori demografici, economici, sociali, tecnologici, culturali hanno influenzato e influenzano le condizioni stesse di vita e di sopravvivenza (Zamagni, 2010). Mantenere sullo sfondo questo scenario è la condizione per aprire sguardi su futuri possibili orientati a una reale sostenibilità certo ma anche a una efficacia per la qualità della vita di ogni persona. La consapevolezza che non si possa isolare un aspetto della realtà senza coglierne le connessioni, e quindi la ricchezza, è una premessa fondamentale (Zamagni, 2020). Il contesto diventa perciò elemento sostanziale dell’agire sia organizzativo che professionale.

La semplificazione -patologia del pensiero occidentale, almeno fino a 50 anni fa- è stata ricercata come strumento e garanzia di ordine, come condizione per trovare risposte e certezze: quasi che ciò che ci circonda potesse essere classificato in modo statico (Ceruti, 2020).

C’è una metafora usata da M. Heidegger che introduce l’idea di territorio/spazio che richiede di essere trasformato in luogo per essere abitato (Heidegger, 2017). Per transitare dallo spazio al luogo serve il ponte che nel caso è il senso e i valori che si mettono in campo. Sta a ciascuno e all’umanità trasformare lo spazio in luogo: farlo diventare discarica o giardino, patrimonio, bene comune o terra di conquista. Lo spazio si attraversa, il luogo lo si abita, nel luogo ci mettiamo noi stessi e le nostre emozioni (Tagliapietra, 2005).

Vale per tutti i processi sociali e vale anche per i servizi alla persona, siano essi sanitari, sociali, culturali, di governo del territorio, della produzione. La crisi che si sta vivendo, amplificata dalla emergenza pandemica certo, è però molto più profonda, interpella tutti mettendo in campo bisogni nuovi e sfide assolutamente inedite. Di seguito proviamo a dare conto di possibili spazi da ricostruire.

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Verso nuovi paradigmi: due chiavi di lettura

Non si risolvono i problemi con gli stessi paradigmi con i quali sono stati creati

Che si tratti di un passaggio epocale, quello che stiamo vivendo, crediamo ci sia consapevolezza. Rammendi e riparazioni necessarie in una fase emergenziale non sostituiscono probabilmente l’esigenza di una nuova tela, una ri-tessitura del sistema delle relazioni in un’ottica eco-sociale, sfida aperta e con esiti incerti perché in gioco entrano nuovi saperi, nuove prospettive, nuove opportunità imprevedibili come, per sua natura, è ogni passaggio epocale come il momento che stiamo in effetti vivendo e non solo attraversando.

Non si risolvono i problemi con gli stessi paradigmi con i quali sono stati creati; le questioni di oggi sono infatti il risultato delle scelte di un passato, forse neppure troppo lontano. Per aprire orizzonti nuovi servono idee, valori, dimensioni di senso nuove, con la pazienza che comporta ogni semina. Difficile accettarlo se non si rompe lo schema, che sembra avere preso tutti, del presente assoluto senza prospettiva.

La complessità della realtà

Ma la realtà è molto più complessa (Morin, 2017); complessa, non necessariamente complicata. Complicato è ciò che richiede uno sforzo notevole per descriverlo, per analizzarlo e per risolverlo; complesso è invece ciò che è tale al suo interno, indica cioè una proprietà intrinseca dell’oggetto al punto che non è descrivibile e spiegabile. E chi lo osserva ne è parte sostanziale. È questo il passaggio fondamentale in quanto non è dato di separare l’oggetto dal suo osservatore.

La scissione tra soggetto che osserva e oggetto osservato è ciò che determina molti problemi sia di tipo conoscitivo che organizzativo sia relazionale, con pesanti implicazioni sulla responsabilità di ognuno di fronte ai problemi.

Gli specialismi e i limiti dell’approccio olistico

Si pensi agli specialismi, alla frammentazione dei saperi, alla scarsa attenzione a saperi diversi e ai segnali deboli. Si sono compartimentati i saperi e si è proceduto a forme estreme di astrazione di oggetti dal loro contesto, alla ricerca di un principio d’ordine che nulla ha a che fare con la complessità, e in fondo con la conoscenza pertinente (Morin, 2017).

Il correre ai ripari con approcci definiti olistici non affronta né risolve i problemi: perché non è legittimo sostenere che il tutto vale più della parte, non si può ridurre la proprietà delle singole parti a quelle del tutto, che comunque viene isolato. Non ne nasce una relazione, si perde la multidimensionalità delle cose, gli intrecci e le potenzialità delle singole parti; si perde cioè la ricchezza delle interconnessioni (Poli, 2007).

Complessità e relazioni

L’approccio della complessità apre lo spazio agli intrecci e alle relazioni e quindi alla possibilità di costruire alleanze affrontando la realtà in modo più ampio e ricco di opportunità perché si intrecciano più dimensioni e più punti di vista. È la dimensione proposta dell’ecologia integrale dove trovano forma le relazioni tra scienza e vissuto delle persone, tra uomo e natura, tra ragione ed emozione. È evidente quanto questo possa influenzare una visione diversa dei saperi individuali e dell’essere di ciascuno dentro le cose, in una relazione che richiede complementarità e costringe ad un atteggiamento che si caratterizza come il non sapere di non sapere come condizione per esserci e mettersi in gioco senza pregiudizi e gerarchie.

Un cambio di prospettiva: “L’essere parte”

Siamo parte del contesto, vi siamo contessuti e il risultato finale ci riguarda da vicino. Si potrebbe dire che prima di essere professionisti siamo cittadini, parte delle dinamiche di relazione che le comunità esprimono. Un cambio di prospettiva e una sostanziale revisione dei paradigmi che attengono l’essere parte, l’essere intrecciati con quanto succede -di cui non siamo tanto spettatori ma attori protagonisti comunque- risulta fondamentale e ineludibile: siamo plasmati mentre contribuiamo alla vita della comunità entro cui operiamo.

Oggi più che mai serve condividere il senso, riconoscerci dentro valori e disegni comuni per cogliere le specificità del contributo di ognuno, che rimane tale ma che acquista valore perché contribuisce al disegno generale. Il perché deriva dal fatto che il luogo in cui si vive è qualcosa di unitario nei suoi diversi impianti formali e operativi (si pensi alle diverse istituzioni) che volenti o no trovano ragione nelle relazioni tra le parti. È a questo livello che si misura il cambiamento: sono le persone, i loro modelli mentali che costruiscono il futuro e le istituzioni camminano sulle gambe delle persone che le vitalizzano.

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Quali suggestioni offrire in questo contesto

C’è un filo rosso da tessere e di seguito proviamo a offrire spunti allo scopo, utilizzando parole chiave, nella convinzione che l’approccio della complessità le metta in connessione e offra uno sguardo d’insieme sul futuro. Magari richiamando Calvino che nelle città invisibili sottolinea come il ponte (parte della nostra metafora) non è sostenuto da questa o quella pietra ma dalla linea dell’arco che esse formano (Calvino, 1993). Usiamo la parola -sperando di non fare un’insalata e frastornando tutti con sapori che non sembrano legare- con la convinzione che servano a comunicare idee, a sollecitare approfondimenti, a guidare riflessioni critiche, a valutare da punti di vista almeno in parte nuovi sia i fatti sociali che l’agire quotidiano da parte di ogni persona. Perché siamo animali sociali e la parola ci permette di pensare collettivamente oltre le dimensioni performative del neoliberismo consumistico.

Un “ordine logico” dalla complessità

Non è il prodotto come fine ma come mezzo per un fine “altro” –che nel caso dei servizi alla persona dovrebbe essere il benessere individuale e sociale– come base e condizione per la ricerca dell’incontro, della connessione tra differenze, del riconoscere la parzialità di ogni contributo e del suo valore, dell’agire interrogativo, della relazione come evidenza che nessuno è un’isola.

Affermazione certo scontata, ma che sottende un ordine logico tra fini e mezzi, tra obiettivi e strumenti, secondo un approccio che parte da valori per definire principi, metodi e strumenti per ottenere risultati che legittimano e ridefiniscono continuamente i valori stessi in una circolarità, vitale e autorganizzante, capace cioè di migliorare le proprie capacità rimettendo insieme in modo più adeguato l’insieme delle risorse in funzione delle finalità. Ciò avviene di norma senza l’aiuto esterno ma migliorando i diversi contributi in funzione del fine, perché a esso dovrebbero essere orientati tutti gli elementi del sistema.

Integrazione o alleanza?

È questo il senso profondo dell’integrazione: saltano le gerarchie, le nicchie di potere, si condividono valori e principi, si sconfina perché si è capaci di osmosi professionale e organizzativa, premessa per la qualità di ciascun contributo

È forse il caso di parlare di alleanza (Prandi, 2017) come riferimento di principio, pensando che la conseguenza sia l’integrazione quale strumento che traduce in fatti e forme concrete di azione, il riconoscimento reciproco e il bisogno di complementarità, organizzativa, sociale e professionale. È da un riconoscimento della necessità l’uno dell’altro che si costruiscono alleanze cui segue naturale quella di sconfinare, mettere in comune, ricostruire su basi diverse sia saperi che forme concrete dell’azione. Si potrebbe quasi dire che integrarsi è una necessità mentre allearsi è una scelta, l’integrazione appartiene alle dimensioni operative mentre l’alleanza si colloca tra le dimensioni strategiche.

Tabella 1: Complessità, alleanza e integrazione: una possibile lettura di senso

VALORE BASE

LA PERSONA

Condividere che ogni essere, anche il più chiuso nella più banale delle vite, costituisce in sé stesso un cosmo, è la condizione del suo riconoscimento come persona

PRINCIPIO

ALLEARSI

L’alleanza si fonda su valori condivisi da cui scaturisce un metodo di lavoro chiaro e partecipato da tutti. Considerare la reciprocità come elemento guida dell’agire professionale e organizzativo

METODO

SCONFINARE

Riconoscere le differenze. Creare osmosi. Accettare contaminazioni

Riconoscersi complementari

STRUMENTO

INTEGRARSI

Scoprire, analizzare, condividere risorse, progettare, condurre esperienze comuni, …

RISULTATO

PERSONA/ SALUTE

Risultato di componenti soggettive e oggettive

 

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Le tappe di un possibile itinerario per ritracciare il “lavoro che ha cura”

Con tali premesse è ora possibile entrare nel merito di alcuni aspetti che coinvolgono emotivamente oltre che tecnicamente professionisti e organizzazioni. Sono sette le tappe che si prefiggono lo scopo di ritracciare/rintracciare parole e forme del lavoro che ha cura della persona fragile dentro contesti precisi e conosciuti da ogni professionista:

  1. i soggetti del lavoro che ha cura (le persone della relazione di cura);
  2. le modalità della relazione (il servizio come relazione che ha cura);
  3. il risultato (la salute come benessere);
  4. il contesto (la comunità, le sue risorse e il Welfare come strumento di garanzia per la salute);
  5. il lavoro che ha cura (con la scommessa della domiciliarità, la prossimità e le forme concrete della prossimità);
  6. un’ipotesi a sostegno del lavoro quotidiano di rete;
  7. una diversa mappa professionale.

I soggetti del “lavoro che ha cura”

La prima parola su cui riflettere è persona. La provocazione nasce da una affermazione di Hillman (1997): Ma anche una persona particolare; se la vediamo come irlandese o tedesca, ebrea o cattolica, nera o bianca, alcolista o suicidaria, vittima o borderline … allora non vediamo una persona bensì categorie.

L’impronta scientifica di stampo razionale e positivista è quella che guida il lavoro di cura e da questa discende sia una visione utilitaristica della stessa cura sia una dipendenza dalla tecnologia, con la conseguente lettura parziale e settoriale delle situazioni. Si tende a parlare di utente, di paziente, di assistito o di cliente, di destinatario … difficilmente di persona.

La scommessa del cambiamento è interrogarsi su chi è e non solo e soltanto su cosa ha la persona che chiamiamo paziente. Perché la persona è senza aggettivi qualificativi, che va colta nella sua dimensione ontologica. Ma la persona è in quanto in relazione, è il suo intreccio di relazioni che ne definisce la sostanza e apre opportunità e sogni, improvvisi e sempre legittimi quando attengono al riconoscimento della sua dignità e della sua appartenenza.

La relazione pone le sue radici in ciò che accade tra una persona e l’altra, non in qualcosa che sta dentro una sola persona (Bateson, 1995). Per questo la riflessione va posta non solo sulla persona (paziente) che chiede ma anche su chi dà (professionista). I soggetti sono almeno due nella relazione che ha cura: due persone che guardano la realtà con occhi propri ma che nel profondo propongono la stessa direzione e la medesima visione. Se così non è, non vi è riconoscimento reciproco e la persona svanisce nel suo problema (paziente/utente) o nelle sue abilità (specialista). La persona mette sempre in campo sé stessa, le sue emozioni, le sue paure e le sue difese, le fragilità e le risorse, il suo contesto, la sua storia e i suoi riferimenti valoriali e alla fine ne esce cambiata: vale per entrambi curante e curato. È su questo che acquista significato l’affermazione di Hillman del rischio di categorizzazione: se così non è il rischio di sottovalutare la persona, di sostituirsi ad essa e creare una dipendenza è molto evidente. Questo è ovviamente altra cosa dalla competenza per cogliere la persona fragile in una relazione sostanziale che recupera per il professionista la competenza fondamentale dell’ascolto.

Ecco perché è ontologicamente fuorviante parlare di presa in carico, perché non valorizza la persona, crea dipendenza, non lavora sulle potenzialità, non responsabilizza. Con un saggio a più mani scritto nel 1977 (poi ripubblicato dalla casa editrice Erickson nel 2008) Ivan Illich ha provocato una riflessione sui temi dei poteri forti (quelli delle professioni) e sulla tendenza diffusa alla colonizzazione. Il libro è Esperti di troppo e raccoglie saggi di vari autori, ma credo che la premessa di Illich sia estremamente importante ed è di guida per gli altri contributi. La tesi si può sintetizzare così: A volte le professioni tipiche del Welfare rischiano di condurre l’uomo a nuove forme di dipendenza fino a portarlo a diventare “prigioniero” delle istituzioni stesse (Illich, 2008).

Il riferimento fondamentale sembra essere quello del bisogno: qualcuno ha bisogno e io sono l’esperto che risolve in parte o completamente il problema. Chi definisce il bisogno? E nel profondo cosa contiene? Le culture hanno definito nel tempo questi bisogni: ogni cultura ha tradotto questi bisogni in forme concrete di lettura degli stessi e nelle relative soluzioni. Le scelte neoliberiste ne hanno stravolto il senso, creando dipendenze quanto meno discutibili. Soprattutto non sembrerebbe corretto che altri interpretino e orientino il bisogno di una persona.

È senza dubbio importante cogliere i dati biologici, il cosiddetto disease, le evidenze che nella medicina sono i dati clinici, oggettivi e nel sociale è la povertà, la solitudine, l’abbandono scolastico, la mancanza di lavoro o di una casa -per fare degli esempi concreti e certo non esaustivi- ciò che in definitiva dichiara la persona. Viene registrato, ma non è sufficiente: gli aspetti evidenti sono parte del vissuto della persona e già questo apre orizzonti più ampi ricostruendo storie, percezioni, vissuti specifici (si parla in questo senso di illness, la biografia della persona). Ma ancora non è sufficiente, perché la dimensione biologica e quella esistenziale/biografica non danno comunque ragione del bisogno se non si recupera il contesto nel quale il tutto esplode (in inglese si usa il termine sickness).

Cioè è necessario entrare in relazione; la parola bisogno nel suo etimo originario (radice germanica e poi latina e francese) richiama contestualmente idee di ricerca, sollecitudine, attenzione, cura, limite e apre lo spazio alla dimensione della relazione. Richiama sia la complessità della persona e sia la ricchezza dell’incontro che si traduce nella condivisione di una reciprocità che coinvolge allo stesso modo tutti i protagonisti.

Bisogno è quindi carenza ma anche attesa, progetto, apertura per mettersi in gioco e, quindi, responsabilità; purché la persona si percepisca protagonista del proprio disegno di salute. La cura in questo senso assume le dimensioni del care, del prendersi cura, della reciprocità dell’avere cura appunto, del concepirsi da parte dei protagonisti come in cammino, in ricerca. Il termine cure ribalta invece sul tecnico tutto il peso e rischia di non garantire alcuna forma di partecipazione; scelta ovvia in situazione emergenziale ma poco comprensibile nella normale evoluzione delle vicende umane (Tanzi, 2021).

Le modalità della relazione: il servizio come relazione che ha cura

Persona e cura riportano al centro il tema della relazione e del servizio. La relazione, ciò di cui è fatta ogni persona (Heidegger 2009), si basa sul riconoscimento reciproco. Nella relazione ci si scambiano cose, emozioni, ci si mette in gioco, non se ne esce se non cambiati, perché la relazione è apprendimento reciproco, è scoperta e stupore: si basa su una dimensione del non sapere di non sapere, perché è imprevedibile e semmai sconcertante. Parafrasando Heidegger l’esserci è un con-essere con l’altro che non sostituisce, non alleggerisce dalla responsabilità, ma anzi la presuppone. La relazione crea autenticità, pone sullo stesso piano, riconosce il valore di ognuno, il contributo di ogni soggetto della relazione in una dimensione di complementarità e ne definisce una alleanza profonda basata su valori e obiettivi comuni, sulla costruzione di un disegno di salute che è condiviso (Heidegger, 2009). Gregory Bateson parla di danza delle parti interagenti per sottolineare come in una danza, nessuno dei danzatori è in grado di dirigere unilateralmente il movimento d’insieme. Ognuno è “parte danzante” con la sua competenza, ma, soprattutto, attraverso l’ascolto del movimento dell’altro (Bateson, 2007).

Ecco allora che anche parole come empatia hanno bisogno di essere ridefinite per evitare violenze (profonde anche se non sempre volute) e andare verso logiche di exotopia (dove ciascuno entra in relazione valorizzando l’altro riconoscendolo nella sua unicità). Marianella Sclavi nel definire empatia ed exotopia scrive: Nell’empatia il ricercatore isola e decontestualizza alcuni tratti della esperienza dell’altro per comprenderla in base alla propria esperienza, quindi mantenendo valido il proprio contesto. Finge di mettersi nelle scarpe dell’altro, ma in realtà, all’ultimo momento, mette l’altro nelle proprie scarpe. Nell’exotopia invece la ricerca inizia quando il ricercatore, avendo cercato di mettersi nelle scarpe dell’altro, si accorge che non gli vanno bene. Ma per accorgersi bisogna «esporsi», non si può usare né i questionari né le interviste rigidamente strutturate (Sclavi, 2003).

Tabella 2: Sguardi sulla relazione come Partecipazione

 

FORME CONCRETE E INTENSITÀ

ELEMENTI CRITICI DA CONSIDERARE

 

Spazio di potere al cittadino

Partecipazione diretta,

dove prendono forma diritti e doveri

Si definiscono forme di partecipazione dove si decide e si controllano i processi e i risultati e ci si basa sull’impegno e la responsabilità

EXOTOPIA basata su alleanza e riconoscimento reciproco

Partecipazione delegata

Le forme attuali che danno per scontato la rappresentanza

Partnership

Diverse forme di collaborazione in funzione di un risultato almeno in parte condiviso

Partecipazione formale

Conciliazione

Riguarda sostanzialmente la gestione del conflitto

EMPATIA

Forme strumentali per evitare anche i conflitti

Consultazione

Raccogliere pareri/proposte in funzione di decisioni non presidiabili

Informazione

Costruire strumenti in grado di verificare se la comunicazione è attivata

Non partecipazione

Presa in carico

Compliance.

Si definiscono confini di ruolo e di potere che deve essere riconosciuto

EMPATIA

Manipolazione

Quando si decide il servizio e si condizionano le scelte individuali e sociali

Disinteresse

 

 

Lo dice per chi fa ricerca ma non è dissimile da un approccio, ormai prevalente, attraverso strumenti formali, freddi (linee guida, modulistica per rilevare stati di salute vari, …) certo necessari ma mantenuti nei limiti dello strumento che non può sostituire l’attenzione alla originalità di ogni incontro. La diversa intensità di ogni incontro può forse essere riletta con questa piccola mappa: interpella ciascun professionista rispetto a deleghe più o meno consapevoli, a forme di difesa, a illusorie relazioni di potere spostando fuori dall’incontro il senso profondo e arricchente dello stesso.

Il servizio è ciò che definisce l’incontro tra persone (cittadino e professionista). Non è una semplice transazione (in termini di consumo), non è solo l’atto tecnico, e non si esaurisce con l’incontro tecnico professionista-cittadino. Il servizio si rappresenta piuttosto come relazione complessa di tipo tecnico, affettivo, emozionale, economico in funzione della lettura adeguata e una conseguente risposta coerente ad un bisogno. Diventano cruciali i contributi di ognuno e questi entrano nella relazione così da affrontare in modo adeguato ciò che si intende costruire in termini di risposta globale. Dove la responsabilità di chi-ha-cura -sottolinea L. Mortari- non va intesa come responsabilità del ben-essere dell’altro, poiché questo posizionarsi nella relazione tradisce un senso di onnipotenza e con esso una interpretazione in-autentica della responsabilità; si profila invece come responsabilità di predisporre quei contesti esperienziali che possono facilitare nell’altro la assunzione della responsabilità della ricerca del proprio ben-esserci (Mortari, 2006). Non ci si può accontentare di eseguire interventi sulla base delle conoscenze/abilità tecniche. Il servizio come relazione che ha cura diviene un cammino di apprendimento reciproco perché conosce e agisce, progetta e propone vivendo esperienze e situazioni esistenziali, in modo che ciascuno consapevolmente disponga della propria esistenza e recuperi tutte le risorse necessarie per riuscire a costruire il proprio progetto di salute. Questo perché che lo sappiamo o meno -ci ammonisce Sergio Manghi- i nostri saperi tecnici e tecnico-professionali, che rimangono ovviamente indispensabili, vanno sempre a far parte di –ovvero: vengono implicati in– contesti interattivi e comunicativi più ampi e imprevedibili da un solo punto di vista. E i loro effetti non saranno mai ovviamente quelli che l’applicatore aspetta (Manghi, 2004).

Il risultato atteso: la salute come benessere

La relazione è condizione fondamentale per la persona e nella relazione trova le condizioni per la propria salute. Questa, dichiara l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si genera e viene vissuta dalla persona negli ambienti in cui vive la vita di tutti i giorni; dove impara, lavora, si relaziona, ama, gioca (Carta di Octawa, 1986, Dichiarazione di Shanghai, 2016). Ciò che sembrano sottolineare questi documenti dell’OMS -che integrano la definizione generale della stessa OMS del 1948. Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità– è la dinamicità del concetto stesso di salute che viene ancorato alle situazioni concrete sociali, culturali ed economiche, al punto da indicarne la rilevanza fondamentale per le scelte di governo della polis.

In qualche modo si supera l’idea di stato di salute dove si perde, forse, la dimensione progettuale e si ragiona sulla capacità di adattamento e di autogestione che (ri)propone idee come resilienza, capacità di fronteggiare, ripristinare e mantenere la propria integrità, il proprio equilibrio e l’idea stessa di benessere. Si relativizza il concetto di salute, lo si riconduce a percezioni e vissuti specifici fino a pensare che salute come condizione sia una dimensione personale che interpella tutti gli aspetti della vita. E lega profondamente la persona al suo contesto. Entrano a definire la salute le dimensioni fisica, psichica, spirituale, il benessere economico, l’istruzione e la formazione lungo tutto l’arco della vita, il lavoro, la conciliazione dei tempi di vita, la giustizia e l’equità, relazioni sociali positive, la sicurezza, la percezione di sé nel contesto, il benessere soggettivo (tutti fattori che l’OMS collega alla salute). Quindi fattori strutturali, sociali, ambientali e culturali influenzano e in fondo ridefiniscono continuamente l’idea di salute e la sua percezione individuale e sociale (Dichiarazione di Shanghai, 2016). Anche la salute è complessa, è il risultato di influenze reciproche nel qui ed oggi. Ecco perché si lega la salute ad una idea di ecologia integrale; si parla di One health, disegno che attraversa il mondo animale, vegetale, ambientale, umano. Perché ogni cosa è intrecciata e le influenze reciproche sono fondamentali (Ziglio, 2021). Così la salute diventa bene comune, non una merce da acquistare in qualche supermercato specializzato. Semplificando si potrebbe dire che in fondo il bene pubblico è altro da noi. Il bene pubblico non è né escludibile né rivale nel consumo, mentre il bene comune implica comportamenti basati sulla reciprocità. Il bene comune è l’evidenza di un capitale disponibile per ciascuno, in quanto parte di una comunità, di quell’insieme di valori e di beni che guidano e danno senso alla convivenza e all’impegno reciproco (Capua, 2020).

Se si conviene che parlando e occupandoci di salute si sta ragionando intorno al bene comune/collettivo e non a una merce richiamata dalle logiche del bene pubblico/privato si dovrebbe convenire anche su alcune caratteristiche di questo bene comune (e di tutti i beni comuni):

  • che ciascuno abbia la consapevolezza che esso è limitato, quindi ognuno deve avere a cuore la sua conservazione e il suo buon uso e quindi è impegnato ad un uso adeguato, sostenibile, mirato;
  • che l’insieme delle risorse destinate alla salute anche attraverso i servizi alla persona, in conseguenza di un progetto di welfare globale, si intreccino tra loro per un progetto personale e sociale di ben-essere: elemento cruciale diventa in tutto questo l’intreccio e le connessioni tra le parti in una visione unitaria della comunità, che si parli di formazione, di servizi sociali, di servizi sanitari, di gestione del territorio, di vita collettiva e diffusione dei saperi, … E non è un discorso teorico ma riguarda il fare concreto, l’utilizzo delle risorse, l’attenzione continua alle implicazioni di sistema;
  • che non si può non sentirsi dentro le cose. È più tranquillizzante invece sentirsi fuori, quasi come consumatori; mentre per il bene comune salute tutti sono parte corresponsabile, consapevole e partecipe;
  • che serve mettere in campo la capacità di massimizzare la progettualità per ognuno, vissuto come partner, come parte, come protagonista nel senso che il bene comune acquista significato nella relazione ed è nella relazione che ognuno mette sé stesso e si realizza;
  • che di fronte al bene comune ognuno è competente e quindi non ci sono rischi di violenza sulle persone. È violenza il decidere per conto, è violenza vedersi condizionata la partecipazione, è violenza non avere spazi reali di espressione e di valutazione, è violenza l’imposizione di priorità la cui dimensione reale in termini di coerenza e di efficacia sono quantomeno discutibili, è violenza la dipendenza.

Nel tempo la parola salute è diventata monopolio di un segmento sociale, l’organizzazione sanitaria, rilevante ma pur sempre parziale, e aldilà delle magari buone intenzioni si è andato identificando con quanto questo segmento sociale (l’organizzazione sanitaria) ha scelto fosse riconducibile alla salute. La comunità delle persone è stata, in questo come in molti altri settori, espropriata e professioni forti hanno sostituito le persone nel decidere bisogni e risposte. Così salute e sanità si sono sovrapposte e sono diventate sinonimi. Con effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Ancora una volta si ripropone la questione dell’avere cura come visione del nostro essere parte di un contesto nel/del quale siamo allo stesso tempo artefici e fruitori. La consapevolezza di questo orienta anche il nostro contributo alla salute globale, delle singole comunità, delle persone.

Il contesto (la comunità, le sue risorse e il Welfare come strumento di garanzia per la salute)

Dopo avere percorso gli elementi che definiscono la relazione che ha cura, anticipando come il contesto sia importante, ora lo si riprende dichiarando subito che esso rappresenta il terzo elemento della relazione che ha cura. Nella complessità, come detto, i diversi elementi si influenzano a vicenda e la relazione ne definisce significati, implicazioni e in un qualche modo contenuti nel senso che richiede evidenza a aspetti specifici i cui contorni non sono assolutamente predefiniti. Prendiamo in esame il contesto che ha diverse chiavi di lettura; in questo momento lasciamo sullo sfondo l’aspetto organizzazione/Istituzione e ci concentriamo sulla dimensione della comunità (espressione plastica del contesto). Lo facciamo perché è convinzione che sia in questa dimensione che la salute prende forma. La comunità è il dove si genera la salute, come ci sottolinea l’OMS. Salute è la comunità, l’insieme delle relazioni di reciprocità che in essa instauriamo e che ci rassicurano perché in una comunità possiamo contare sulla benevolenza di tutti. … Aiutarci reciprocamente è un nostro puro e semplice dovere, così come é un nostro puro e semplice diritto aspettarci che l’aiuto richiesto non mancherà (Bauman, 2003). Connettere salute con contesto/comunità ha due ragioni complementari: la prima è di natura eco-antropologica. In una dimensione di ecologia integrale, dove ogni cosa è connessa, non è legittimo isolare i vari aspetti del vivere, e quindi delle risposte ai problemi che il vivere presenta. La seconda è più di natura organizzativa e sociale che rimarca l’esigenza di osservare le cose dal di dentro, laddove le cose succedono e nel nostro caso appunto le diverse dimensioni del vivere quotidiano.

Figura 1: Gli intrecci della relazione che ha cura

La comunità va pensata nella sua accezione originaria di Cum Munus, dove si declinano dono, responsabilità e impegno reciproco. Sempre meno si può immaginare una comunità come struttura basata su territorio, religione, etnia, storia (chiusa dentro confini difensivi di identità). Oggi la responsabilità reciproca si gioca sul tema della salute/stare bene collettivo e individuale come bene comune. In questa prospettiva, le diverse istituzioni -costrutti storici per garantire salute/benessere- hanno bisogno di fare un passo indietro e rappresentarsi come risorsa della comunità, connesse alla comunità a cui devono rispondere in una logica di advocacy reale e non formale. Quindi comunità non si identifica né con le istituzioni a priori né con specifiche articolazioni organizzative.

Si vuole accentuare l’aspetto del noi delle relazioni che si instaurano tra le persone che la abitano; certo anche l’aspetto geografico, il territorio, le storie, l’organizzazione delle diverse funzioni è aspetto rilevante, ne è lo sfondo e se si vuole una molla per trasformare quello spazio/territorio in luogo abitato e generativo di benessere come si è detto (utilizzando la metafora di Heidegger). Il sistema che nel tempo la comunità ha costruito come risposta organizzata originale al disegno di salute è ciò che va sotto il nome di welfare, stato sociale, sistema di sicurezza sociale e via di seguito a seconda dei punti di vista. Wikipedia fornisce una definizione, forse superficiale ma comunque abbastanza puntuale di stato sociale: Lo Stato sociale è un sistema che si propone di fornire servizi e garantire diritti considerati essenziali per un tenore di vita accettabile, assistenza sanitaria, pubblica istruzione, indennità di disoccupazione, sussidi familiari in caso di accertato stato di povertà o bisogno, accesso alle risorse culturali (biblioteche, musei, tempo libero), assistenza d’invalidità e di vecchiaia, difesa dell’ambiente naturale. Lo strumento è un sistema di norme e di interventi con il quale lo Stato-Comunità cerca di eliminare le diseguaglianze sociali ed economiche fra i cittadini, aiutando in particolar modo i ceti meno abbienti. Nasce dal di dentro della comunità creando condizioni per il benessere individuale e collettivo. È uno strumento e come tale va considerato, perché non può essere assolutizzato e neppure letto con parametri parziali (come oggi sembra prevalere quando lo si demonizza perché costoso). Va cucito attorno alla comunità secondo valori che richiamano quelli individuati di uguaglianza, reciprocità, benessere, inclusione e sicurezza. La comunità, a tutti i livelli, ha molte risorse a disposizione: non sono solo le istituzioni tradizionali (scuola, sanità, ecc …) che va ribadito sono costruzioni sociali legate alla storia delle comunità e come tali sono soggetti ad una continua legittimazione da parte della comunità stessa (da qui il tema della partecipazione come fatto sostanziale). La comunità diventa luogo di garanzia del bene comune salute/benessere e per questo il governo complessivo rimane ancorato alle forme della politica (governo della polis) che in questa fase storica trova evidenza negli Enti locali nelle diverse forme e articolazioni. Non si può immaginare un sistema di garanzie (come si propone di essere il welfare) senza la comunità, senza le relazioni vitali tra persone che sognano insieme realizzando condizioni favorevoli al successo individuale e collettivo. Ne scaturisce come fondamentale una governance pubblica del sistema di welfare. Oggi si ragiona in termini di globalizzazione e quindi una attenzione alla comunità viene tacciato di localismo, chiusura culturale, resistenza al cambiamento … certo ci sono anche rischi di questa natura ma la idea del noi nella vita sociale è una sfida da lanciare. Si vorrebbe soprattutto una ritessitura delle relazioni tra persone alla ricerca di una qualità della vita sostenibile evitando soluzioni individualistiche che vedono il vivere quotidiano come una competizione permanente con le conseguenze che ben conosciamo, soprattutto se si pensa alle persone fragili, alle fatiche dell’inclusione, alle persone con patologie croniche, agli anziani. Servono sostanzialmente scelte di campo basate su:

  • una epidemiologia di cittadinanza davvero orientata ad includere, e quindi riconoscere, diritti e doveri, bisogni e risorse, opportunità e vincoli presenti in ogni comunità, reti informative formali e informali, valorizzazione di competenze e saperi sociali, diventa elemento essenziale. Pensando a come oggi si prendono le decisioni questa dimensione informativa disponibile alla comunità diventa essenziale. Serve un profilo di comunità reale che integri le informazioni istituzionali con quelle sociali sia formali che informali (Campedelli, 2010).
  • il riconoscimento del ruolo fondamentale di ogni componente sociale come risorsa di sistema, risorsa comunitaria: si tratta di coinvolgere e mettere in rete risorse formali e informali, pubbliche e del terzo settore sulla base di un disegno condiviso. Con una regia sostanziale dell’ente locale. Dal profilo di comunità scaturisce una programmazione per priorità secondo criteri di sostenibilità con un budget di salute che coinvolga tutte le risorse e ne garantisca unitarietà, nell’utilizzo e nella compartecipazione.
  • un impianto di governance rigorosamente pubblica che rispecchi sia i principi della partecipazione diretta alle decisioni da parte della comunità sia criteri condivisi di valutazione basata non solo sulle cose che si fanno (prestazioni e servizi) ma sulla sicurezza, l’inclusione e la coesione sociale. Partecipazione da intendersi anche come assunzione di responsabilità e impegno di ogni cittadino per il bene comune.
  • una visione aperta del sistema comunità dove le connessioni sono condizione di visione sul futuro, dove si è in grado di rigenerare e far rendere le risorse (già) disponibili, per aumentare l’efficacia e l’efficienza degli interventi delle politiche sociali, a beneficio degli aiutati in primo luogo e di tutti, perché la salute è un progetto e una sfida per la felicità. Soluzioni organizzative rigide che separano compiti e risorse, che non permettono relazioni con la persona ma con il problema, con la patologia e con le catalogazioni sociali, sono sia spesso inefficaci sia soprattutto dispendiose e scarsamente efficienti come dimostra l’approccio riduzionista (che si muove sul rapporto individuale problema/soluzione).

Con la consapevolezza che la salute riguarda l’intera vita sociale, bene comune, e non può essere appannaggio di alcuna Istituzione da considerarsi come strumento sociale legittimato dalla comunità. Concretamente, parafrasando Ivan Illich, si deve arrivare a de-sanitarizzare la salute, creando socialmente le condizioni per una vita dignitosa per ogni persona, il che coinvolge come detto tutti gli aspetti della vita, individuale e sociale secondo principi di consapevolezza e di responsabilità.

Più che un insieme di prestazioni individualizzate – che rientrano, cioè, nella logica del modello di consumo -il welfare, ci dice Magatti- va dunque concepito di nuovo in rapporto a un progetto di società, a un modo di stare in relazione, di vivere la propria individualità all’interno di una comunità di appartenenza. Dalla qualità di questo rapporto, reciproco e sostenibile, dipende una buona parte del nostro futuro (Magatti, 2017). In questo patto sociale sono tutti protagonisti: la reciprocità regge questo impegno di tutti, perché si tratta di un’alleanza per complementarità.

Il lavoro che ha cura: Casa della Comunità (CdC), domiciliarità e prossimità

La comunità diviene il luogo concreto e la sintesi del contesto di vita e di relazioni; ridefinisce radicalmente il lavoro che si prefigge la cura e in generale il modo di agire delle istituzioni ad essa finalizzate. Nel tentativo di ritessere una tela diversa da quella prestazionale e consumistica che rischia di prevalere in molti campi (solo due esempi: le prestazioni sanitarie nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN), i programmi nella scuola) proviamo a orientare il lavoro sulla base dei valori sopra dichiarati attraverso tre ambiti di attenzione guida.

  1. a) La CdC (non di o per la comunità che sarebbe ancora una volta altro dalla comunità) è una possibile strada concreta per facilitare l’incontro tra tutti i protagonisti della salute (Landra, 2019). Per riprendere la nostra metafora heideggeriana la CdC si connota come luogo abitato, vissuto dove emozioni e progetti possono trovare concretizzazione attraverso il riconoscimento reciproco. La CdC diventa così il luogo, sociale, organizzativo e simbolico di una nuova esperienza di vita collettiva. Se, come detto, la salute non è una merce ma una condizione consapevole, partecipata e co-costruita quotidianamente da ciascuno, la CdC rappresenta una opportunità per vivere le situazioni diversificate di ogni convivenza sociale ai diversi livelli e condizioni, dalla educazione, alla sanità, alla cultura, al lavoro, ai tempi di vita, al rapporto con l’ambiente.

Non è indispensabile quindi che sia tutto dentro una struttura fisica (dovrebbe avere dimensioni gigantesche) ma dovrebbe piuttosto caratterizzarsi come il luogo, oltre che della prima accoglienza, della regia delle diverse forme attraverso le quali la salute viene garantita indipendentemente dal livello di autonomia delle persone. In altri termini, si potrebbe dire che tale entità dovrebbe costituire il luogo:

  • di una nuova identità comunitaria (reti di reti);
  • dei diritti di cittadinanza (basata sul riconoscimento reciproco);
  • della partecipazione e della consapevolezza dei doveri;
  • della integrazione delle risorse (un progetto di sistema);
  • dell’accoglienza e dell’avere cura (la persona è considerata in quanto tale e non catalogata secondo criteri di reddito, patologia, ecc.).

La CdC è sicuramente il luogo dell’accoglienza dove anche gli spazi fisici devono essere progettati come tali (non dell’accesso che sa di burocratico, anche le parole contano); è il luogo dove in modo interdisciplinare e intersettoriale ci si prende cura delle persone nella loro unicità e unitarietà; quindi occorrono saperi specialistici ma non solo, occorre la tecnologia (specialmente le nuove modalità di telemedicina ad esempio) ma occorrono soprattutto relazioni.

Un’ipotesi organizzativa di questo tipo costringe tutti a ridefinire il modo di lavorare di tutte le istituzioni e dei professionisti che vi operano. Provando a connotare tale modo di lavorare esso deve basarsi sul valore della persona e su principi condivisi e azioni conseguenti.

Tabella 3: Una possibile Carta di Identità della CdC (Associazione “Prima la Comunità”)

Principi /obiettivi

Azioni

Andare verso

Far emergere i bisogni sanitari, sociali e di cittadinanza

Cercare chi non arriva

Porre in essere azioni preventive, curative e sociali che raggiungano fisicamente le persone ad alto rischio di vulnerabilità

Sviluppare una visione condivisa di salute

Promuovere la realizzazione d’interazioni di conoscenza, di collaborazione, di attività (progettuali) con la comunità e le sue istituzioni formali e informali.

Rendere operativa la sostenibilità tecnica, sociale ed economica

Realizzare strumenti per la gestione e la rendicontazione delle risorse attivate a livello di ciascuna Casa della Salute

Favorire il protagonismo della persona

Sviluppare percorsi di salute, diritti, inclusione sociale nella relazione che ha cura

Favorire il protagonismo della comunità

Dotarsi di strumenti formali e sostanziali di partecipazione dei cittadini nei momenti decisionali, di erogazione dei servizi e nella valutazione dei risultati

 

  1. b) La domiciliarità. Sulla domiciliarità cioè sul riconoscimento che la persona è parte della comunità per tutta la sua vita. La domiciliarità è lo scenario della persona, è il contesto dotato di senso per la persona stessa. La domiciliarità comprende la persona con la sua storia e le sue relazioni, significa la casa con i suoi affetti, ricordi, esperienze, gioie e sofferenze … ma va oltre … rappresenta il rapporto con l’esterno, con ciò che la circonda, l’ambiente, il paesaggio, il paese, le forme vissute della vita quotidiana, potremmo dire la “cultura locale” (Associazione di Promozione Sociale La Bottega del Possibile). Questo è ciò che sono chiamate a garantire le istituzioni attraverso le forme concrete che il contesto propone (sia in termini di servizi sociali e sanitari che di azioni legate al tempo di vita, alla possibilità di relazioni, all’offerta di supporti adeguati per la mobilità, …).

DOMICILIARITA’ (Un nuovo paradigma dell’avere cura)

… È quindi un interno e un intorno di cui si ha bisogno per non sentirsi spaesati, per vivere appieno la propria domiciliarità radicata sul territorio e … nell’intorno bisogna poterci stare davvero, bisogna abitarvi realmente!

La domiciliarità è lo scenario della persona, è il contesto dotato di senso per la persona stessa.

(Associazione La bottega del possibile)

Non si tratta solo di assistenza domiciliare (è una opzione certo che parte dalla lettura del contesto) ma deve considerare come luoghi della comunità anche tutte quelle risposte che cercano di far fronte alle diverse persone fragili in rapporto alla rilevanza dei problemi (dai centri diurni, ai laboratori variamente denominati, a risposte di residenzialità protetta). La persona ha diritto (e la comunità attraverso i suoi strumenti ha il dovere) di riconoscersi dentro la comunità di cui rimane risorsa e fattore positivo di sviluppo. Tutte le risorse messe in campo hanno valori comuni e una unica governance (pubblica) cui la gestione deve rispondere in modo coerente. Le forme concrete andranno pensate e radicate nei contesti e nelle loro storie. Quello che non è accettabile è che di fronte a persone fragili si sradichi la persona stessa dal suo intorno e la si isoli, magari trattandola adeguatamente, ma comunque eliminandone la storia (trasformandolo da cittadino a ospite/assistito). La domiciliarità è un cambio di prospettiva: sono le persone non le istituzioni che debbono essere considerate. Non c’è un momento in cui la persona cessa di essere cittadino per essere scartata e relegata in contesti più o meno asettici.

Una chiosa importante poi, in questa riflessione è il ruolo dei servizi di Sanità Pubblica che dovrebbero contribuire con i loro interventi autorizzativi e di controllo a garantire condizioni di vita adeguate eliminando barriere, favorendo ausili, ampliando gli spazi per la mobilità ecc. in stretto collegamento con le Cure Primarie, l’Ente Locale e con tutte le opportunità sociali in campo.

  1. c) La prossimità. Si è detto che il contesto trova le proprie radici nell’esperienza stessa del tessere, nel concreto fare del tessitore. Ebbene questa è la dimensione della prossimità che coniuga elementi strutturali e elementi organizzativi e relazionali. La prossimità (centri e luoghi della Fondazione Ebbene) risponde a due esigenze, la relazione e la reciprocità. La comunità è l’espressione naturale del bisogno umano di essere in relazione e si organizza mettendo in campo sogni e risorse per la qualità della vita. Ciò che va superato è pensare che ci siano malati, una società di malati, e un’altra che cura perché fatta di sani. L’idea stessa di complessità ci catapulta dentro come professionisti/persone e ci sollecita a essere prossimo non in chiave sostitutiva ma come agente promotore di reciprocità per attivare risorse, riconoscerle e valorizzarle attraverso la messa in rete. Riconoscendo che la persona fragile ha bisogno della rete comunitaria per sentirsi curato (care) come persona e non solo nel corpo o in parte di esso. Ne nasce la necessità di impegno per attivare quelli che chiamiamo i corpi intermedi (sindacato, associazionismo, mondo dell’aggregazione, …) tutte le risorse informali (che vanno dagli opinion leader di comunità al vicinato, ai diversi gruppi di interesse, …) e formali (il cosiddetto terzo settore che a questo livello diventa risorsa fondamentale). La scommessa della prossimità è appunto la promozione delle risorse della comunità, metterle in rete per modificare il contesto in funzione della qualità della vita. Inizia a questo livello quello che è chiamato il welfare generativo cioè la scoperta, ricomposizione e valorizzazione di tutto il capitale sociale fatto di economia, solidarietà, reti informali. Passaggio fondamentale se si accetta che la fragilità non è un concetto astratto ma sono persone, ognuna con una propria storia influenzata dal contesto che viene investito partendo dalla sua rete familiare. La figura del caregiver si colloca in questo intreccio di reciprocità e non è un sostituto delle carenze di servizi, non può quindi essere lasciato solo dalla comunità. Cosa che oggi succede perché le logiche sono quelle prestazionali e della delega.

Conseguenza prima di questi aspetti organizzativi è un metodo di lavoro che vada oltre il fare per recuperare per ogni relazione che abbia cura un percorso che non accetti semplificazioni nel processo decisionale. Di fronte a una situazione la tendenza (o la tentazione) è quella di assumere le nostre categorie mentali come chiave di lettura che ci permettono di semplificare il problema perché in fondo abbiamo già la soluzione (la nostra, quella tecnica specialistica). La scommessa è invece quella dell’analisi del problema nella sua complessità, la valutazione condivisa e la costruzione di una risposta articolata dove tutte le risorse in campo sono attivate, avendo chiaro che andiamo verso la costruzione di senso di ogni contributo e quindi la valorizzazione della persona.

Tabella 4: Le cinque tappe fondamentali di ogni processo decisionale nell’avere cura (Mortari, 2006; Artioli, 2016; Landra, 2019)

TAPPE

SIGNIFICATO

Conoscenza del contesto

È la disponibilità per tutti (cittadini e istituzioni) della conoscenza e dell’accesso al capitale sociale (valori, storie e relazioni, risorse, problemi) il cui utilizzo è il risultato di un’alleanza tra tutti nella logica della valorizzazione dei talenti della comunità.

Accoglienza

… Andare verso le persone, cercarle e farle sentire parte e non solo utenti … ognuno si sente a casa sua e non importa da dove inizia questo cammino. Il Punto Unico di Accoglienza è una risorsa diffusa del contesto sociale.

Valutazione dei problemi e individuazione delle soluzioni

… ed è l’insieme delle competenze e delle opportunità del contesto che entrano a definire cosa può e deve essere messo in atto a sostegno del progetto di salute della persona e del gruppo sociale. Evitando lo sguardo parziale del mandato istituzionale ma osservando e agendo in una logica multicentrica (professionale e istituzionale).

Il percorso della relazione che ha cura

Evitare il rischio della parzialità degli sguardi va di pari passo con la necessità di accompagnare la persona nella ricerca di soluzioni adeguate. Riconoscendo che una relazione che ha cura non può esaurire il suo mandato con il fare bene la propria parte ma richiede la costruzione delle connessioni per un disegno di sistema /persona/comunità contribuendo ad attivare tutte le potenzialità/opportunità del contesto.

L’autonomia raggiunta. La valutazione (che comprende, superando sia dimissioni che e follow-up)

Si sposta il fuoco dall’istituzione alla persona e si pone l’accento sulla unicità della storia di ognuno che non può essere letta come sommatoria di eventi. In fondo è la domiciliarità che viene ribadita, nella sua accezione ampia di esperienza comunitaria e le istituzioni rappresentano contributi fondamentali, ma pur sempre contributi, nell’evoluzione della storia naturale della salute/malattia.

Si assume un approccio aperto alla complessità, partendo dall’altro e dal contesto nel quale la situazione si situa. Ed è a questo livello che prende forma e si valorizza il contributo del professionista. Con due traccianti guida, quello della sostenibilità dell’azione che si intraprende (che vale sia a livello micro -il rapporto individuale- che meso -nella rete delle risorse in campo- che, infine, macro -il confronto con il sistema comunità-) per garantirne concretezza e completezza e quello della partecipazione nelle sue dimensioni decisionali e valutative ma anche di impegno e responsabilità come si è detto e che in questo caso vale la pena ribadire anche come elemento cruciale per il successo. Se la CdC è la risorsa che facilita l’incontro, la domiciliarità è il principio guida e la prossimità è metodo per la concretezza, il lavoro sul campo, non si può pensare a un lavoro parcellizzato e settoriale, nella logica del non è compito mio. Questo sia per il professionista che per le istituzioni: il contributo di ogni parte acquista significato se si mette in rete. Dal disegno comune scaturiscono risorse messe in rete, tutte le risorse comunitarie quelle formali e istituzionali e quelle informali) così come viene definito nei budget di salute di comunità. Preme sottolineare il bisogno di rendere possibili gli sconfinamenti in contesti osmotici, -le membrane porose di Goffman- capaci di permearsi a vicenda, di rendere ragione e legittimare le singole parti (torna ancora una volta la complessità e il bisogno di connettere). Perché non esistono affatto delle parti. Ciò che chiamiamo una parte non è altro che uno schema in una trama inscindibile di relazioni. Possiamo quindi considerare lo spostamento dalle parti al tutto come uno spostamento dagli oggetti alle relazioni (Capra 2006). Le implicazioni sull’azione professionale sono significative perché vanno a ridefinire il senso stesso del fare in quanto apre all’imprevisto e accetta la scoperta che nasce dall’ascolto e dalla disponibilità a mettersi in gioco oltre le certezze tecniche. Entrano in scena le emozioni e il valore esistenziale della relazione che riconsegna senso e dignità alla persona. Saltano le gerarchie tra saperi, ruoli organizzativi, appartenenze perché ciò che guida l’azione è l’idea di salute come patrimonio di ognuno messo in comune prioritariamente con la persona più fragile. E infine si può pensare che l’essere parte responsabilizza rispetto alle implicazioni delle diverse azioni che si intraprendono da cui anche la necessità di mettere in comune informazioni in grado di sostenere progetti innovativi. L’incontro di saperi diversi, tecnici, sociali, umanistici, esperti e non esperti relativizza da una parte e valorizza dall’altra i singoli contributi (considerando la logica di sistema dove il tutto è contemporaneamente di più e di meno della somma delle parti) e permette di arrivare a sintesi complesse, in grado di garantire le necessarie connessioni. Il lavoro di squadra non è quindi un’opzione ma una necessità e una condizione per la qualità della relazione che ha cura. Il futuro cioè relativizza i saperi, li costringe al confronto che significa lavoro interdisciplinare, multiprofessionale e interistituzionale.

Un’ipotesi operativa per il lavoro quotidiano

A monte vi è il ruolo di governo dei bisogni e delle risorse che almeno nell’ipotesi di CdC così come delineata dovrà essere garantita da una responsabilità istituzionale dell’Ente Locale, dell’Azienda Sanitaria e di un terzo settore che la Corte Costituzionale (sentenza 131/2020) include tra le risorse a valore pubblico. Questa può essere adeguatamente adempiuta da un Distretto che unisca i diversi contributi sociale e sanitario, pensato come luogo della analisi dei bisogni (profili di comunità) e delle risorse (budget di salute di comunità). La CdC in questa ottica è la risorsa organizzativa che garantisce da una parte la partecipazione attiva e responsabile della comunità stessa e, dall’altra, mette le diverse professioni in una condizione di poter lavorare insieme in una logica di squadra. La dimensione operativa si potrà quindi articolare per piccole aree territoriali che potranno garantire relazioni incentrate sulla cura delle persone con lo strumento del budget di salute individuale come articolazione operativa e reale del Budget di comunità, integrato dalle risorse delle diverse articolazioni locali (microaree). Il piano di lavoro nasce in questo modo come sintesi dei risultati dell’incontro tra la persona con tutta la sua rete -familiare, parentale, amicale e sociale- e con l’apporto delle risorse formalmente coordinate in sede distrettuale e quelle presenti, in modo informale o formale nei singoli contesti di vita (prossimità). Il contributo del professionista-equipe professionale si esprime, -oltre ovviamente a mettere in campo il proprio specifico tecnico- attraverso la scoperta, l’ascolto, e il lavoro di squadra  contribuendo alla ricostruzione delle risorse formali e informali, far parlare tra loro saperi e attese diversi, come condizione per definire il patto di cura, accompagnarne la realizzazione secondo livelli di responsabilità condivisi mantenendo una visione sempre complessiva così da finalizzare il contributo specifico, verificarne evoluzione e risultati di salute globale possibile.

Lo sconfinamento e l’incontro dei saperi: riorganizzare le mappe professionali

La competenza si esprime sempre in una relazione con altri soggetti, contesti, gruppi, oggetti di lavoro: ragione per cui diviene centrale la capacità di esprimere intelligenza sociale, intesa come capacità di una persona di decodificare il sistema sociale con cui si trova ad interagire, stabilendo e mettendo in atto le strategie comportamentali adeguate (Capra, 2006). È evidente che agire la professione è entrare in relazione, agire con dove questo è la persona, il contesto e tutte le altre competenze necessarie a costruire un disegno di salute sia esso individuale che comunitario. Tutto il nostro riflettere su persona, contesto, relazione che ha cura, comunità, ha espresso concretamente una idea di complessità che si riverbera direttamente sull’agire professionale, oltre ovviamente che organizzativo (Fabbri, 2005). Lo sforzo è quello di riconsiderare le componenti fondamentali della professione, articolandone le competenze in una dimensione nuova che incontra saperi diversi se è vero che essa si esprime comunque con altri in contesti precisi. Spesso si è sottovalutato sia il fatto che i contesti sono determinanti e questi sono abitati con altri con cui insistono relazioni che si influenzano reciprocamente. Morin richiama questo aspetto e sottolinea come nel tempo le specializzazioni abbiano disabilitato alla conoscenza. Allora forse è il caso di ripensare ad una mappa delle competenze che apra a queste esigenze nuove e permetta a ciascun professionista di essere parte attiva al disegno di comunità portando il suo contributo in stretta connessione con tutti gli altri. Ciascuno è risorsa per le cose che sa fare ma anche per le connessioni che sa instaurare che non solo relativizzano i singoli contributi ma crea opportunità inaspettate. Tolstoj sottolinea che ogni uomo per agire ha bisogno di credere che la sua attività sia importante e buona: il rischio dell’autoreferenzialità è sempre possibile. Nel tempo si è posta l’attenzione soprattutto alle competenze tecnico specialistiche, fondamentali certo ma non esaustive. Anche per queste vi sono esigenze di ripensamento a fronte di quadri demografici ed epidemiologici mutati di pari passo ad una visione nuova della salute da parte delle persone. Quello che in questa fase diventa cruciale è un ripensamento delle competenze organizzativo-gestionali e di quelle relazionali che i tradizionali percorsi soprattutto accademici hanno indubbiamente sottovalutato (Civelli, 2002). Significa dare concretezza a quanto finora detto, -senza perdere di vista lo specifico tecnico- immaginando un agire interconnesso e una esigenza di disporre di viste diverse sulla realtà nella sua complessità (l’immagine del prisma a molte facce come rappresentazione della realtà rende necessari saperi diversi tutti fondamentali perché permettono di fare luce sulle facce nascoste del prisma stesso).

Tabella 5: Un esempio di rilettura delle competenze (esito del lavoro di gruppo interprofessionale -Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma, 2013)

Area

–        Possibili competenze

–        Azioni/comportamenti

Area

gestionale organizzativa

1.      Adottare una visione di sistema e agire in una logica processuale

2.      Spendersi sul lavoro

3.      Essere orientato al risultato

4.      Lavorare in squadra

5.      Essere orientato alla prevenzione, all’innovazione e al cambiamento

§  Descrive il processo di lavoro che si attiva per arrivare al risultato, pianifica e gestisce le conseguenze organizzative e tecniche

§  Condivide punti di vista e mette a disposizione le informazioni utili alla qualità del servizio

§  Riconosce e valorizza il contributo degli altri accettando, quando è il caso, anche le critiche

§  Partecipa attivamente alla vita dell’organizzazione portando contributi ed idee innovative

Area delle relazioni

1.      Saper ascoltare e comunicare

2.      Condividere e gestire le emozioni

3.      Saper costruire e mantenere relazioni positive sul lavoro

4.      Sviluppare condizioni e opportunità di empowerment e protagonismo individuale e di comunità

§  Rispetta le storie di ogni persona e le identità di ognuno integrando le competenze tecnico-cliniche con l’approccio proprio della medicina narrativa (integra l’approccio empirista del ragionamento clinico con quello ermeneutico antropologico)

§  Costruisce relazioni di cura orientate all’empowerment del cittadino evitando dipendenza e distanza di potere

§  Dà la giusta importanza a quanto riferisce il paziente, senza banalizzare, semplificare, dare segni di insofferenza, fare dell’altro, o interrompere la relazione

§  Trasmette una visione positiva del lavoro e si impegna con continuità e con entusiasmo.

§  Sviluppa relazioni e percorsi di cura finalizzati a costruire consapevolezza nelle persone e la loro assunzione di responsabilità, dalla consapevolezza dello stato di salute, alla gestione del trattamento sanitario all’utilizzo dei presidi e delle risorse

Area della formazione e ricerca

1.      Tendere al proprio sviluppo professionale e a quello della comunità professionale

2.      Sviluppare ricerca e innovazione

3.      Documentare in modo sistematico il proprio contributo e scambiarlo con quello degli altri

§  Contribuisce a dare sistematica evidenza al capitale umano e professionale dell’organizzazione

§  Partecipa a gruppi di ricerca (dai percorsi di audit clinico e organizzativo a progetti di ricerca interaziendali)

§  Integra i saperi specialistici con gli altri saperi necessari ad affrontare bisogni complessi (saperi sociali, economici, antropologici, organizzativi, tecnologici, …)

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Tracce per un cambio di prospettiva professionale e organizzativo

Che ci sia bisogno di un cambio di prospettiva risulta evidente, crediamo, da tutto il nostro contributo sia per l’agire professionale che per i disegni organizzativi. A ciascuno le riflessioni che ne ricava dalla lettura del contributo. A noi forse il compito di ricapitolare alcuni passaggi critici necessari:

  • da fragilità a persona fragile: andare cioè oltre le categorie tradizionali dell’utenza che peraltro rischia di esonerarci dal pensare che il mondo delle persone e delle attese sociali sia in qualche modo in evoluzione. Il nostro focus sono le persone, ogni persona e la nostra scommessa è di costruire con ciascuno percorsi unici di cura in una relazione che accompagna e responsabilizza. Il nostro è un contributo certo fondamentale ma sempre contributo a un progetto di salute che appartiene alla persona;
  • da persona a persona fragile e famiglia: è nella relazione che si scoprono le reali dimensioni del bisogno che si intrecciano con le risorse in campo, le nostre certo ma anche e soprattutto quelle della persona e della sua famiglia nella sua complessa unitarietà. La dimensione dell’ascolto è quindi fondamentale e questo si realizza solo se ci si mette accanto e si vive la relazione in una dimensione di stupore e scoperta in quella logica che si basa sul non sapere di non sapere: ogni persona infatti è uno scrigno che è necessario aprire e la chiave sta nella reciprocità;
  • dalla prestazione a un confronto reciproco a tutto campo: abbandonare dunque la logica della prestazione a catalogo per aprire il confronto a tutto campo: su questo si misura davvero la competenza che non è tanto fatta da abilità in sé quanto dalla loro contestualizzazione; le competenze cioè hanno sempre bisogno di un contesto e di una relazione per potersi esprimere appieno. Perché non si lavora sulle persone ma con le persone. Significa possedere saperi e abilità e adattarle al contesto. È l’unica strada per evitare di capovolgere la situazione: siccome sono definite le risposte attraverso i saperi tecnici i bisogni vengono adattati e manipolati (la partecipazione infatti non è manipolazione);
  • dal Territorio alla Domiciliarità: il contesto non è una variabile secondaria del nostro essere professionale. Esso va letto in modo partecipato e diventa parte integrante delle scelte organizzative. E il contesto determina il successo dell’agire professionale; la domiciliarità come scelta strategica riconosce il valore del contesto nella relazione che ha cura;
  • dalla presunzione isolata al senso del limite ma interconnesso: la complessità della cura (e delle scelte che essa sottende) introduce la dimensione del limite di ogni azione. Ciascun contributo, essenziale, ha bisogno di connettersi con tutti gli altri, perché un sistema complesso (e la persona lo è come lo è ogni organizzazione) è reticolare, fatta di nodi e di linee che connettono. Questo per sottolineare che nessuno è autosufficiente e può concludere di avere fatto la propria parte senza avere nello stesso tempo ricercate le connessioni con altri elementi del contesto sociale, organizzativo e professionale;
  • da autonomia a sconfinamento nel lavoro di squadra: il fatto che nessuno sia autosufficiente è premessa del lavoro di squadra nel quale gli sconfinamenti (così come descritti sopra) diventano valore aggiunto perché riconoscono le differenze e su queste si costruiscono alleanze che sono contestualmente valoriali-progettuali e operative. Ma è anche la premessa per un diverso modo di essere sul territorio, nei diversi contesti attraverso sia la visione di sistema della comunità (di qui la CdC) dove la salute è disegno globale e il metodo di lavoro multi professionale e interdisciplinare ha nella prossimità la sua espressione concreta sia nel metodo che negli strumenti;
  • dalla routine alla responsabilità delle professioni: ecco perché serve una radicale ridefinizione delle professioni. Ad accecarci -ci ammonisce Morin– non è solo la nostra ignoranza, è anche la nostra conoscenza. Perché continuiamo a categorizzare i saperi e a gerarchizzarli andando alla ricerca di certezze. Il catalogo delle prestazioni (e i LEA – Livelli Essenziali di Assistenza) quando diventano un fine e non uno strumento di lavoro flessibile ne è la riprova che peraltro legittima le diverse tecno-burocrazie che sempre più diventano schiave dei moduli informatizzati, dove le crocette permettono un risultato che non ha bisogno di relazione. Ma questo alla fine tranquillizza, ci permette la routine e ci deresponsabilizza: il lavoro di cura è invece, come ogni incontro, qualcosa di imprevedibile, ci coinvolge, siamo parte e non solo esecutori;
  • fragili tutti: fragili sono tutte le persone, noi e le persone che incontriamo nel lavoro professionale; certo disponiamo di strumenti specifici che vanno adattati nella relazione dalla quale usciamo tutti diversi e con strumenti sempre nuovi. Perché noi non siamo i nostri saperi tecnici ma persone che sono parte attiva della relazione. Ecco perché ogni astrazione (e le categorie sociali sono un’astrazione) non permette progetti di salute ma logiche mercantili che nulla hanno a che fare con il nostro essere professionisti a 360°.

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Conclusione

Non è possibile guardare in una direzione nuova appuntando sempre più gli occhi nella vecchia direzione. Si è riluttanti ad abbandonare a mezzo uno scavo sia perché è costato sforzi che andrebbero interamente perduti, sia perché è più agevole proseguire un lavoro in corso anziché arrovellarsi intorno ad altri progetti, comportanti grossi impegni di carattere pratico.

Ciò che si è voluto proporre con questa riflessione è la possibilità di intraprendere una strada nuova e questa ha fondamenti radicati nella ricerca sia tecnica che sociale. È una traccia di lavoro che come detto ha bisogno di essere messa in campo per poterne valutare le implicazioni positive in primo luogo per le persone che sono parte di un sistema di welfare attento alle fragilità senza rischiare di scartarle con la scelta di proteggerle dentro luoghi e modalità non certo inclusive, siano strutture (Residenze Sanitario-Assistenziali, istituzioni per disabili, percorsi separati di varia natura…) o modalità di consumo di prestazioni senza alcuna connessione con i progetti di vita.

Ma è una strada necessaria se si intende dare nuova vita ad un sistema di protezione sociale che sia sostenibile, credibile agli occhi dei cittadini e soprattutto trasparente ed equo.

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Acronimi

  • CdC: Casa della Comunità
  • LEA: Livelli Essenziali di Assistenza
  • OMS: Organizzazione Mondiale della Sanità
  • SSN: Servizio Sanitario Nazionale

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